14 agosto - Praia a Mare - Boscotrecase

            Ovvia! E anche per stanotte la nostra sana dormita quotidiane s'è fatta!
Sarà meglio però alzarci subito, visto che son già le 7.00, benché il programma anche oggi non c'imponga uno stress eccezionale dal momento che l'odierna preventivata tappa, che sarebbe poi stata quella di domani, ci prescrive soltanto 185 chilometri, la distanza cioè che sulla carta ci separa da Paestum. Quasi quasi però verrebbe voglia di rimanere un po' di più in tranquillo dormiveglia.
Il metallico rumore delle tre cerniere dell'ingresso della tenda, aperte da uno dei tre, che, chiunque sia, ne avrebbe potuto fare anche a meno, costringe però a far fugare agli altri le residue eventuali velleità poltronesche e scattare di nuovo in piedi pronti ad affrontare la nuova giornata di viaggio.
Oggi è venerdì ed è una settimana che siamo a giro. Il tempo si mantiene bello.
Una corsa ai W.C. e una lavata di faccia presso la cannellina, poi, liberata la tenda dai sacchi a pelo, delle coperte, dai materassini e dai lenzuoli, impiegati quest'ultimi pure come cuscini di emergenza, smontiamo il tutto e, completata una superficiale pulizia dell'interno, in cui si è accumulata inevitabilmente un po' di sabbia, arrotoliamo la nostra Canadese riponendola quindi per l'ennesima volta insieme ai tubi e ai picchetti, sempre più paurosamente ritorti, nell'apposito sacco. Ridotti quindi ad un ingombro più possibile il tavolino e le seggioline pieghevoli, passiamo al quotidiano rimpinzamento del baule del 124, che si completa come al solito e sempre non con indifferente sforzo con la sistemazione del sacco a pelo dell'Ughino che potrebbe qualificarsi benissimo a due piazze. Tutto è a posto comunque, anche le cartacce e qualche rifiuto civilmente radunato in un sacchetto e un po' di languore fatto scomparire con qualche biscotto trovato chissà dove e un tozzo di pane.
Son circa le 8.00, quando ci ritroviamo tutti e tre finalmente a bordo con il Gianni al volante che in questo momento dà il giro di chiavetta per 1'accensione. Gli risponde un sordo e prolungato mugolio del motore che agghiaccia e sgomenta. Un secondo tentativo è seguito da un'identica reazione, che, insistendo nella sollecitazione del motorino d'avviamento, va progressivamente a diminuire fino a trasformarsi in una serie di sforzati singulti che fanno cadere definitivamente ulteriori speranze di poter assistere ad una partenza normale. Diamo un'occhiata nel cofano motore, ma è per tutti evidente che il fattaccio di questa mattina debba farsi risalire allo sconsiderato utilizzo degli anabbaglianti fatto ieri sera, che ha scaricato la batteria. Uguale impressiome deve averla pure il nostro vicino fiorentino, che, accortosi dei nostri guai, eccolo farsi avanti verso di noi col suo compagno di tenda, consigliandoci subito, quale unico possibile rimedio, di ricorrere alla vecchia risolutrice spinta. Gentilmente i due fiorentini si offrono allora di darci una mano nel lanciare il 124, cosicché, dopo averlo portato sulla stradina interna del campeggio in direzione dell'uscita, ecco la violenta spinta, lo stacco della frizione e, nello spazio di qualche decina di metri, l'ormai insperato ruggito del motore di nuovo in perfetta efficienza. Boia miseria che paura ci ha fatto prendere questa macchina, anche se, a pensarci bene, dell'abuso di ierí sera i responsabili siamo solo noi.
Ringraziamo i due cortesi concittadini e, compiuta sempre all'interno del camping una doppia curva, la prima a destra, ci ritroviamo davanti alla direzione, dove, mentre Alberto provvede a saldare il conto del nostro soggiorno, il Gianni, per il momento di attesa, non trova di meglio che tener semischiacciato il pedale dell'acceleratore onde evitare l'improvviso spegnimento del motore, che ci ridurrebbe a spingere di nuovo. Torna Alberto e si riparte.
Ancor più problematico risulta poi, percorse le stradine sterrate, rimanere in sospensione su quella breve salitella prima di poter immettersi sulla statale, dove un momento dopo spicchiamo il volo per Paestum con il perentorio ordine di non fermarsi se non dopo diversi chilometri, per permettere così alla spompata batteria di ricaricarsi sufficientemente.
La strada che percorriamo ora è piuttosto ampia e scorrevole: sovrasta spesso la spiaggia di qualche decina di metri, mentre l'entroterra è costituito da successivi rilievi da cui di tanto in tanto si affacciano arroccati paeselli. Adesso per esempio ecco raggiungere un picco un po' più elevato degli altri e piuttosto a strapiombo sulla strada e quindi sul mare. In cima, lassù, all'estremità di uno dei soliti agglomerati di case, si erge, creando una suggestiva e insolita immagine, una bianca statua rappresentante il Cristo, con le braccia aperte rivolte verso il mare. Molto bello!
In una ventina di minuti poco più, ecco intanto avvistare e raggiungere Sapri, un grazioso paesino disposto tutt'intorno ad una piccola insenatura, mentre la strada, dopo averci proposto un tracciato piuttosto tortuoso e sempre a picco sul mare, scende lentamente adesso ritrovandosi all'ingresso di Sapri al livello della spiaggia. Doppiando il golfo, abbiamo poi ora occasione di godere della tranquilla immagine del porticciolo cullato da un mare calmissimo, le cui lunghe increspature sono minimamente evidenziate dal leggero ondeggio degli alberi delle numerose barche e yacht ancorati qua e là. Superata la piazzetta centrale, iniziamo a percorrere adesso l'altra metà del golfo, stuzzicati sempre dalla pretenziosa speranza di scorgere da un momento all'altro la famosa spigolatrice, pur essendo magari disposti a rinunciare alla macabra visione, per altro poco indicata di mattina a stomaco vuoto e con la batteria scarica, di una tragica ecatombe di eroici giovani, che / pur essendo tutti quanti alquanto forti / sono purtroppo malamente morti / forse traditi, scoperti o scorti / mentre in trecento, tutti quanti assorti / cercavan di riparare i torti / subiti d'altri numerosi insorti / di campi, città, borgate e porti.
Ma torniamo a noi. Lasciata la romantica e tranquilla Sapri, ideale rifugio dalle giornaliere peripezie, percorriamo ancora una decina di chilometri sempre sulla litoranea, notando tra l'altro sulla sinistra un ridente campeggio a due passi dalla spiaggia e raccolto in una ombrosa pinetina, che, anche per la presenza di una consistente fauna femminile, ci stuzzica un tantino, pur senza giustificare però appieno l'eventualità di fermarci anzitempo qui.
Ecco attraversare intanto Capitello, dove facciamo un rifornimento di dieci litri di benzina, che è il primo dopo quello di Camigliatello di l'altro ieri.
Adesso la statale piega sulla destra nell'entroterra cominciando a salire. Ci ritroviamo in breve in aperta campagna con la strada in continuo saliscendi lungo i modesti rilievi del Cilento, che vagamente nel paesaggio ci ricorda però la nostra Toscana. Alberto ha intanto voglia di un caffè e annuncia anzi di volerlo offrire lui stamattina. Dopo qualche chilometro individuiamo così fortunosamente un isolato bar su un ripiano a destra della strada. Posteggiamo il 124 ed entriamo nel locale immerso in una densa penombra e completamente deserto. Si affaccia da dietro il bancone una donna piuttosto rotonda e in su con l'età, a cui ordiniamo i tre caffè, per poi andare a sederci ad un tavolino lì sullo spiazzato prospicente, mentre, presa la carta di macchina, cerchiamo di individuarcisi. Saremo più o meno di nuovo in Campania, benché però il nome del prossimo paese, Vallo della Lucania, dimostrerebbe il contrario.
Ecco intento i caffè. La donnina ci chiede da dove veniamo e abbiamo così occasione di raccogliere ancora un plauso d'ammirazione a favore della nostra Firenze. Due chiacchiere, e riprendiamo la marcia.
Lungo le numerose curve che la statale 18 ci somministra con una certe frequenza, la conversazione diventa man mano sempre più fiacca, finché, dopo aver cercato di dargli un avvio ripassando in rassegna i consueti ricorrenti argomenti, il cui periodico ripetersi ci diverte alquanto, il Gianni, al fine di sostituire l'inefficiente radio, intona qualche ballata di Fabrizio De Andrè e la trovata dopo qualche strofa sembra riscuotere un notevole successo, tanto che in breve l'atmosfera si rianima di nuovo. Si comincia infatti, con più o meno orecchio musicale, a cantare a turno canzoni di ogni tempo e su qualsiasi argomento: dagli ultimi successi dell'estate a quelli un po' più remoti, per poi finire col rispolverare ogni tanto qualche vecchia melodia napoletana, fra cui la più gradita sembra "Oh sole mio", cantata insieme a squarciagola e non senza qualche inevitabile stonatura, che però finora pare non abbia dato segno di ripercuotersi sulle attuali condizioni atmosferiche. Speriamo bene.
Tra una "lontananza" e un "tanto pe' canta'", vengono poi inseriti cupi cori di montagna o partigiani se non addirittura di chiara ispirazione politica, per poi riprendere improvvisamente a trattare indistintamente di "prime cose belle", "eternità" e via discorrendo in un gigantesco e indiavolato pot-pourri musicale. Ognuno poi cerca di farsi venire in mente il maggior numero di canzoni non ancora prese in considerazione, per poi, dopo averne cantato il ritornello con le parole conosciute, abbandonarle immediatamente per riacchiappare il motivo di quell'altro pezzo che nel frattempo qualcuno è riuscito a ripescare nella memoria. Ogni tanto poi, quando non ne viene in mente nessuna, ecco buttar là un: "solo per te, Lucia", che risolve per il momento la continuità del nostro casinoso guazzabuglio, dandoci così modo di mettere a fuoco altre fuggevoli arie.
Nell'uscire poi da una curva, le nostre cantate in ri minore e fol bemolle per tre soli senza orchestra, vengono improvvisamente interrotte dalla clacsonata di un'850 di un omino che, incrociandoci, ci saluta con la mano e ciò cî rimane inspiegabile finché, voltatici indietro, non scorgiamo una targa di Firenze. Resta comunque incredibile di come abbia potuto individuare la nostra provenienza dalla poco visibile targa anteriore, unico possibile indizio, e per di più in curva e a discreta andatura. Boh!
Comunque: "maestro, prego....!" e giù di nuovo canzoni e strimpellate varie. A tratti poi si esibiscono in applauditissimi assoli, ora Alberto con lacerantissimi acuti e chilometriche volate, smorzate alla fine per mancanza di fiato, ora l'Ughino, che con voce insospettatamente intonata ci dà un saggio non indifferente del suo irriconoscibile timbro baritonale.
Il paesaggio intanto, dopo averci presentato una vegetazione boschiva, ci ripropone ancora nuovi saliscendi e panorami più estesi di una campagna tutto sommato però abbastanza uniforme.
Frattanto, dopo la poderosa faticata per cantare, torna a regnare un po' di uggia.
Il Gianni allora, comprendendo la noia dell'Ughino nello stare dietro senza far niente, si ferma su una salitella presso un distributore di benzina e gli cede il volante. E si riparte.
Dopo ancora qualche chilometro di ascesa, ecco poi il passo e quindi la discesa, movimentata oltre modo da uno scatenato Ughino, che, raggiunta un'850 che ci aveva poco prima sorpassato di gran carriera, ingaggia, tallonandola da vicino, una veloce corsa lungo i tornanti discendenti suscitando forse al tempo stesso un po' di stizza nei rincorsi genovesi illusi forse di poter dare le paste a tutti. Si succedono così per qualche chilometro stridii di gomme, scalate, brusche accelerate. Il Gianni è dietro, ma non ci viene in mente di dargli un'occhiata per vedere che espressione abbia. Di nocchini sulla testa dell'Ughino per ora non se ne sono avuti comunque. Abbordando poi una curva in identiche posizioni ed alla stessa velocità, un omino, che tranquillamente stava camminando lungo il parapettó destro, vedutosi sfrecciare i due bolidi a due passi, non gli riesce di fare a meno che portarsi la mano in mezzo alla fronte e con le dita raccolte battersela più volte a volere forse esprimere, chissà, la propria personale impressione sul nostro rispettivo tasso di intelligenza.
Ed ecco intanto il fondo valle e finalmente un ampio e lungo rettilineo in piano su cui l'Ughino, facendo forza su qualche centimetro cubico in più, supera di slancio la tenace 850, ponendo così fine all'inseguimento.
Senza accorgersene intanto ci stiamo avvicinando a Paestum, che dopo vari incroci raggiungiamo a mezzogiorno. Breve questa tappa, eh!
Imboccato un lungo viale ci accorgiamo subito di essere nei pressi degli scavi, poiché a occhio e croce questa vasta distesa verde, che, recintata, ci rimane sulla destra - ecco difatti i cancelli d'ingresso - dovrebbero ospitare i famosi reperti archeologici dell'era anteriore a Cristo. Due folte ali di auto parcheggiate sul lungo viale cominciano intanto a farci disperare sulla possibilità di sistemare ortodossamente la macchina, ma alla fine, senza dover ricorrere a curiose manovre per issare il 124 su quell 'albero laggiù meno fronzuto degli altri, riusciamo a trovare anche noi un buco abbastanza capace. Fa molto caldo e il sole picchia che è un piacere. Ad ogni buon conto comunque, assieme alle macchine fotografiche, ci portiamo dietro i rispettivi copricapo: da quello alla cow-boy di Alberto, al cappellino giallo alla Snoopy del Gianni, mentre l'Ughino preferisce ricorrere - chissà, forse anche per farci un po' d'abitudine in vista dell'imminente naja - al suo cappellino di colore mimetico.
Traversata la strada, raggiungiamo il cancello d'entrata facendo al botteghino tre biglietti d'ingresso - cencinquanta lire ciascuno - che, a quanto ci è detto, consente pure l'accesso al museo che si trova dal lato opposto del viale. Molto bene.
Entrando in questa vastissima area pianeggiante che nella sua pace dà l'impressione di trovarsi in un giardino fuori del tempo, ciò che immediatamente polarizza la nostra attenzione è il primo grandissimo tempio situato proprio davanti all'ingresso, che ancora oggi appare meraviglioso nella sua quasi completa integrità dal momento che solo il tetto ci è stato rubato dal tempo. Ci avviciniamo al mastodontico rudere, poi saliamo quei tre o quattro scoscianti gradini che immettono nell'interno del fitto colonnato, al centro del quale trova posto un secondo più piccolo ripiano accessibile anch'esso per una più esigente osservazione del tutto. Da ogni lato, guardandosi intorno oltre le massicce colonne, è possibile spaziare su un idilliaco paesaggio tra ulteriori giganteschi templi ed altre rovine qua e là sparse nel verde, che prenderemo in considerazione fra poco. Alzando poi la testa, possiamo seguire, stagliato nell'azzurro del cielo, il millenario perimetro del tempio, interrotto solo ogni tanto da qualche pietra mancante. Le colonne, che devono essere costituite da tre blocchi ciascuna tenuti uniti da quasi invisibili saldature, presentano larghe scanalatura e come tutto il resto quella calda predominante color ocra, illuminata da un sole che continua ad insistere imperterrito nella sua proverbiale abitudine, qui ancor più a proposito che mai, di spaccare le pietre. La distesa verde che ci circonda è resa tremolante infatti dalla tipica caliginosa nebbiolina dell'afa, che si trasforma addirittura in foschia man mano che spingiamo lo sguardo più lontano. Del resto, per accorgersi del caldo boia che fa, basta osservare i numerosi turisti in maniche di camicia e le loro variopinte accompagnatrici in corte minigonne e infinite scollature.
Ci sbizzarriamo intanto a scattare un discreto numero di fotografie cercando sempre lo squarcio più originale o spettacolare, finendo poi però, scesi i gradini dalla parte opposta, a collezionare una delle più classiche inquadrature formato cartolina, riprendendo d'infilata il tempio appena visitato con un primo piano costituito da alcuni cespugli delle diffusissime mazze di S. Giuseppe dai fiori rossi e bianchi.
Dirigendoci adesso verso l'altro tempio, quello a destra entrando, cominciamo a percorrere alcune stradine di contemporanea origine, lastricate con larghe pietre asimmetricamente sistemate, su cui a un certo punto incontriamo una guida in solitaria appostazione, a cui non troviamo di meglio che chiedergli qualche notizia sui reperti. Veniamo così a conoscenza, mentre ci ripariamo su iniziativa del cicerone all'ombra di uno dei frondosi oleandri, che il tempio di dianzi è quello di Nettuno, mentre quello che vediamo adesso là in fondo, un po' meno integro del precedente, ma comunque sempre soddisfacentemente conservato, è il tempio dedicato a Cerere. Dopo averci informato poi circa l'inizio dei ritrovamenti, passa a descriverci una tomba a due passi da noi in mezzo ad altri resti di colonne e pezzi di mura, concludendo col dire che gli archeologi hanno scoperto pure una seconda città, che è impossibile però portare alla luce per non danneggiare i resti d'origine posteriore che adesso possiamo vedere in superficie. Abbastanza indottrinati, decidiamo a questo punto di proseguire la nostra visita, lasciando così una modesta mancia al cordiale custode, che accaldato continua a ripararsi sotto la pianta.
Ci dirigiamo così verso il tempio di Cerere, che ha sulla sinistra, quale indovinata cornice, un gruppo di ombrosi pini dal grande ombrello e dalla riposante e armoniosa linea, che non potevano davvero mancare per completare un paesaggio del genere. Saliti pure all'interno di quest'altro possente complesso, sostiamo un attimo in ulteriore contemplazione, poi ritenendoci soddisfatti della visita condotta, usciamo da un secondario cancello, che ci fa ritrovare di nuovo sul viale.
Visto a questo punto che siamo in ballo, decidiamo poi di visitare subito anche il museo che è situato di lì a qualche decina di metri in una rientranza della strada. La costruzione di stile moderno presenta un ingresso centrale che permette di accedere attraverso una gradinata all'interno del museo, in cui notiamo subito un accurato ordine e una notevole pulizia. Superati due ingressi laterali che servono la portineria e un locale predisposto alla vendita di souvenir, iniziamo la visita del corridoio perimetrale del museo, il quale gira attorno ad un salone centrale che ci riserviamo dì visitare dopo. Lungo le pareti sono disposte fotografie, spezzoni di colonne oppure urne contenenti vari oggetti, di cui molti minutissimi ed altri più voluminosi come numerosi vasi decorati e pazientemente ricostruiti.
Compiuto questo primo itinerario e, costatata in fondo una certa limitatezza del museo, saliamo al piano superiore, dove su una terrazza interna che corre tutta intorno al palazzo analogamente al sottostante corridoio, ci vengono offerti altri esempi della civiltà greca, qui raccolti come al solito in trasparenti contenitori di vetro sparsi vicino alle pareti o qua e là ben coreograficamente disposti. Sul primo angolo poi, girando a destra, ecco forse il clou di tutto il museo. E' stata qui difatti ricostruita in gesso una tomba di qualche secolo prima di Cristo, al cui interno sono stati ordinati nella stessa disposizione in cui sono stati trovati, autentici vasi e addirittura un intero scheletro umano disteso e rannicchiato su un fianco, nella posizione cioè fetale in cui si soleva deporre i morti, a voler idealmente identificare i due più solenni momenti della vita. Il tutto naturalmente, soltanto per il fatto di essere davanti ad un resto umano di oltre duemila anni fa, ci sbalordisce. La tentazione di scattare qualche fotografia è grande, ma ci è stato detto che è vietato, per cui ci limitiamo a continuare ad osservare il sorprendente reperto, ascoltando al tempo stesso alcune informazioni sulle abitudini di questi nostri progenitori, da un custode che però, come lui stesso tiene a precisarci, possiede ormai una più che soddisfacente infarinatura in materia, grazie al continuo contatto che può avere con l'ambiente archeologico. Percorriamo la rimanente terrazza e quindi scendiamo a pian terreno, penetrando successivamente nel predetto salone centrale, dove son raccolti alcuni altri vasi decorati di più grandi dimensioni sistemati su piedistalli di pietra.
Completata la ricognizione di questo ulteriore padiglione, lasciamo il museo e, continuando a percorrere il viale su cui si aprono numerosi negozini di souvenir, di cui la maggior parte sono imitazioni dei più famosi reperti o comunque di chiara ispirazione archeologica, raggiungiamo la macchina e, visto che son le una passate, decidiamo di cercare un ristorante per effettuare così la seconda indagine culinaria (da non confondersi con quella culinterra) del nostro viaggio. Fatto un centinaio, ne avvistiamo uno sempre sul viale e dal lato del museo, che si affaccia su un piazzale interno. Posteggiamo il 124 in una zona dello piazzato attrezzata con una copertura di stuoie al parcheggio delle auto, poi, dopo esser riusciti a scendere di macchina, ma non con scarsa difficoltà per averne due proprio a ridosso, ci avviamo verso il ristorante con la radio che finalmente ha ripreso a funzionare, e con una discreta fame che speriamo di appagare con un decente pranzetto.
Dal momento che davanti al ristorante è possibile occupare i tavolini disposti su una piattaforma coperta da un telone, preferiamo rimanere all'aperto sistemandoci così vicino ad un'ampia finestra che dà sull'interno. Non c'è troppa gente e comunque ci pare abbastanza tranquilla. Siamo noi magari se vogliamo i più rumorosi, tenendo la radio accesa e facendo tra l'altro un po' di tramenio per portare il tavolino completamente all'ombra. Comunque.
Arriva intanto il cameriere e facciamo così le prime ordinazioni: spaghetti alle vongole per tre e che Dio ce la mandi buona e senza vento, perché di Camigliatello ce ne basta uno. L'Hit Parade alla radio è già giunta intanto alle canzoni meglio piazzate: adesso senti stanno trasmettendo "Fiori rosa fiori di pesco".
Dopo breve ecco arrivare le pastasciutte in proporzioni piuttosto abbondanti, che tutto sommato cominciano a far sperar bene. Una conferma determinante l'abbiamo appena presa in considerazione la prima forchettata, mentre cala un silenzio, molto eloquente però circa la bontà del primo. Abbondantemente conditi vanno giù che è un piacere questi spaghetti! Altro che paste a cacio e burro di tutti i giorni e maltagliati del cavolo! Scomparsa l'ultima vongola impomodorata, tutti e tre sentiamo 1'irrefrenabile bisogno di fare il bis, magari con un piatto di spaghetti alle cozze, che, se tanto mi dà tanto, dovrebbero essere entusiasmanti. Tornato il cameriere sicché ne ordiniamo tre porzioni, sorseggiando nell'attesa il vino che ci hanno servito - un certo non meglio identificato vino rosso del Fauro -, di cui magari dopo ne potremo prendere anche qualche bottiglia da portar via.
Ecco intanto tornare di nuovo il cameriere, che, servendo le tre nuove porzioni, ci domanda da dove veniamo, anche se già un'idea se l'è già fatta sulla nostra provenienza per l'inconfondibile calata che puntualmente ci tradisce e che lui ha riconosciuto subito avendo, fra l'altro, fatto il militare proprio a Firenze. Ci ricorda pure la caserma, che, guarda caso, è la stessa in cui ha prestato servizio per tanto tempo il babbo di Alberto, che però il nostro cameriere, dopo averlo scambiato per un altro, non riesce a ricordare. Siamo noi in compenso a ricordarci di qualcosa ed esattamente degli spaghetti alle cozze, su cui ci buttiamo con immutata voracità e che terminiamo in un batter d'occhio, pur gustandoli appieno nella loro specialità. Certo, ci sa fare questa gente, eh!
Nonostante però il doppio primo e il vino che tra un'attesa e l'altra centelliniamo per trascorrere il tempo, ci sentiamo ancora piuttosto affamati o per lo meno ancora in preda ad una giustificabile gola per queste squisitezze, per cui - riecco il cameriere - non esitiamo ad ordinare per secondo - che poi sarebbe il terzo - frittura di pesce.
Ci arriva poco dopo, accompagnata da patatine fritte, una caterva di gamberetti, totani e molluschi affini, che stuzzica solo a guardarla.
Lentamente gustata, veniamo purtroppo però a capo anche di questa pietanza, mentre hic! ... pardon ... è già terminato da un pezzo il vino. Che mangiata! Ci pare abbastanza ragionevole a questo punto saltare il formaggio e la frutta, rinunciando pure al dolce, per lasciare così intatta la fragranza delle specialità di mare assaggiate e trovate insuperabili.
Si affaccia intanto alla finestra vicino a noi quel che deve essere il gestore del locale, che, dopo aver ricevuto i nostri personali complimenti per l'ottima cucina, s'intrattiene con noi in amichevole conversazione. A poco a poco però le due chiacchiere scivolano lentamente fino a toccare uno dei più inadatti argomenti che si posson trattare in fase di chilo, vale a dire la politica, che viene dibattuta da parte nostra con una certa vivacità soprattutto da Alberto, che, forse in preda ai fumi del vino, si trova ora in colorita discussione col gestore del ristorante, il quale, di contro, è di chiara tendenza fascista. Il Gianni e 1'Ughino preferiscono invece astenersi dall'intromettersi, pensando piuttosto ad ordinarsi un digestivo a testa nel tentativo di mandar giù al più presto - ma ne valeva la pena, eh! - il pesante malloppo.
Tra un discorso e l'altro chiediamo poi da che parte possa trovarsi il camping dove è in programma di attendarsi stanotte e che la nostra cartina segnava nei pressi di Paestum. Al tempo stesso, mentre ci vien screditata l'organizzazione del locale campeggio, qualcuno suggerisce di raggiungere fin da stasera Napoli che il programma ci sottoporrebbe quale meta della tappa di domanî, ma che, distando solo una novantina di chilometri, è possibile traslare direttamente ad oggi, bruciando così un altro giorno, che però in definitiva perderemmo ugualmente rimanendo qui, dal momento che più o meno Paestum è già stata sufficientemente visitata. Siamo comunque pervasi anche da un senso di nostalgia di casa, per cui l'anticipato rientro alla base non ci dispiacerebbe affatto, tanto più che insomma l'itinerario programmatoci alla partenza è stato per ora rispettato nei minimi dettagli. La decisione viene quindi varata.
Ordiniamo nel frattempo ancora quattro digestivi, di cui uno ne toccherà anche ad Alberto, che dianzi non l'aveva preso, e uno al cameriere, quale fiorentino di adozione. A questo punto poi, richiesto e saldato il conto, sarebbe anche l'ora d'andar via: son le 15.30 e son perciò più di due ore che siam qui.
L'Ughino e il Gianni ordinano due bottiglie da mezzo litro del vino con cui abbiamo pasteggiato, mentre il gestore ce ne passa una terza in omaggio, dichiarando che se ritorneremo fra qualche tempo nel suo locale con Alberto iscritto al movimento sociale, ci offrirà il pranzo. La proposta è allettante, ma l'eventualità che si realizzi ci pare piuttosto improbabile, conoscendo l'attaccamento alle proprie convinzioni politiche da parte del nostro piccolo bolscevico. Comunque.
Ringraziato e salutato il proprietario e il cortese personale, torniamo al 124. C'è a questo punto il Gianni che vorrebbe guidare, ma l'Ughino, reputandolo a torto o a ragione abbastanza alticcio, lo convince a cedergli le chiavi, mettendosi così al volante. Usciti sul viale, raggiungiamo l'incrocio impegnato dianzi nell'entrare in Paestum e proseguiamo adesso invece a dritto.
Dopo breve ci fermiamo un attimo per rifornirci di altri 10 litri di benzina, mentre ora a bloccarci è un'imprevista sosta davanti ad un passaggio a livello con cui la statale, attraversando la ferrovia, continua poi sul lato opposto a corrervi a fianco. Qualche minuto di attesa, poi si passa.
La strada è abbastanza buona e attraversa, spesso rettilinea, vaste distese pianeggianti. Per molti chilometri comunque la sbornia accumulata a pranzo non ci permette di realizzare a fondo ciò che stiamo osservando e così, oltre alla quasi completa assenza di conversazione, viene ben presto pure a mancare l'interesse per il paesaggio.
Senza perciò neppure accorgersene, arriviamo ad attraversare Salerno e successivamente, percorrendo strade abbastanza affollate, a passare in rassegna i numerosi paesotti che costellano quella strada statale n. 18, che ormai percorriamo addirittura da Paola.
Avvicinandosi intanto a Napoli, torna in tutti una certa lucidità, che ci permette una maggiore partecipazione a questo fine-tappa, tanto da riuscire anche ad avvistare una macchina di Firenze, che superando salutiamo, e cercare pure col pretesto di chiedere qualche inutile informazione di intrattenerci in spicciola conversazione con qualche ragazza del luogo. I tentativi hanno però ben presto termine, allorquando, nel fermarsi davanti ad una presunta bellezza, ci accorgiamo invece nostro malgrado di averne scelta una davvero racchia, che, oltre a bloccare la parola all'interlocutore di turno, ci suggerisce immediatamente di ripartire a razzo e di riconfondersi al più presto fra le numerose auto.
Raggiungiamo quindi dal di sotto la conosciuta Pompei, di cui adesso attraversiamo la piazza principale, ritrovandoci poi proprio nella strada in cui avevamo l'albergo in occasione di quella famosa gita scolastica e al cui indirizzo adesso, ricordandoci dell'infame trattamento riservatoci, vengono lanciati meritati epiteti e gesti pseudo osceni, probabile causa forse in un prossimo futuro di un'eventuale scomunica a nostro carico, dal momento che il succitato Grande Albergo del Rosario risulta di proprietà della Chiesa.
Pochi chilometri dopo ecco intanto il cartello di camping, che immediatamente seguiamo ingarbugliandoci però in un intrico di strade, che presupponiamo dalle non eleganti costruzioni alla periferia di Napoli. Aiutati da qualche informazione, individuiamo poi la direzione giusta e, tornati indietro un centinaio di metri, imbocchiamo una strada in accentuata salita che poi lasciamo per seguire una successiva deviazione a destra, che difatti ecco portarci finalmente adesso all'odierno campeggio, che si estende sulla sinistra arrivando in uno spiazzato di non certe immense proporzioni. E' comunque ben tenuto e la presenza di parecchi pini ci consola, mentre il fatto che sia praticamente al completo ci offre una attendibile garanzia sulla buona organizzazione dell'impianto.
Ci affacciamo al cancellino d'ingresso che son le 18.00.
E' come di consueto Alberto ad interessarsi delle richieste formalità burocratiche presso la direzione, che gli consegna oggi, oltre ad un talloncino di plastica numerato di color rosso, del tipo di quelli usati per distinguere le chiavi, anche il distintivo autoadesivo del campeggio, di forma circolare e di colore blu, che attacchiamo nell'angolo basso sinistro del parabrezza e da cui possiamo venire e sapere di non trovarci nei pressi di Napoli come avevamo avuto impressione, bensì nelle vicinanze del paese Boscotrecase, lontano dal capoluogo campano una buona ventina di chilometri. Il camping inoltre si chiama Vesuvio ed è indubbiamente ispirato in questo al locale vulcano, che difatti possiamo intravedere oltre il campeggio là in fondo. Ecco fare intanto il nostro ingresso ufficiale, mentre non possiamo che costatare di nuovo le ristrette dimensioni dello spazio quadrangolare destinato alle tende e alle roulotte e della ridotta possibilità di scelta che anche stasera non ci mette davvero in particolare imbarazzo. Dopo una rapida occhiata difatti, occupiamo forse l'unico pezzetto di terra rimasto ancora stranamente libero lungo il muro destro di cinta al di là del quale sorgono altre costruzioni.
Posteggiamo nei pressi il 124 e, scaricata subito la tenda, la cominciamo immediatamente ad alzare, sistemandone l'ingresso rivolto verso il muro. Sulla destra abbiamo stasera un pino, mentre un po' più in là c'è la costruzione dei servizi. Dall'altra parte invece ci troviamo la tenda dei nostri più diretti vicini con qualche indumento teso ad asciugare.
Alzata la canadese e predisposti all'interno sacchi e pelo, coperte e materassini faticosamente gonfiati come al solito a bocca in mancanza di un gonfiatore in buono stato, rompiamo le righe.
Mentre così il Gianni fotografa la nostra variopinta tenda, Alberto si reca ai servizi. L'Ughino invece comunica che, visto che non esiste uno spaccio, fa un salto in paese a prendere un po' di sigarette.
D'accordo.
Prima poi che Alberto sia di nuovo presso la tenda, il Gianni ha avuto già modo, facendo retromarcia con la macchina, di investire la sua valigina, per la cui estrazione è richiesta addirittura l'opera del crick.
Insieme quindi, escono dal camping passeggiando un po' sul piazzale prospiciente, da dove si gode un discreto panorama sul mare. Dal momento poi che l'Ughino stranamente non si è ancora rifatto vivo, dando luogo all'immancabile e stantia supposizione che se le sia fatte fare, le sigarette, decidono di andare a riscontrarlo, ma proprio in quel momento eccolo riapparire con un certo nervoso, dal momento che, dice, ha dovuto fare più di un chilometro per trovare un benedetto tabacchino, nonostante che da ogni passante a cui domandava dove l'avrebbe potuto trovare, gli venisse puntualmente risposto che non sarebbe distato più di un centinaio di metri. Una cosa inoltre che lo ha colpito veramente è stata quella strana atmosfera da far-west che ha potuto scoprire camminando per le strade di Boscotrecase: sguardi sospettosi, donnine seminascoste alla finestra e persiane socchiuse che si chiudono improvvisamente al passaggio dello "straniero".
Rientriamo intanto in camping, decidendo per trovar l'ora di cena di fare la consueta partitina a carte. Seduti così attorno al tavolino disposto a fianco della tenda con l'Ughino dal lato della canadese, Alberto di fronte e il Gianni al centro, diamo inizio e qualche mano, mentre poco dopo ecco arrivare su un Capri metallizzato i nostri vicini, di cui è poco dir strani. Ecco difatti passarci accanto e salutarci un giovane negro alto dalla faccia sempre sorridente, seguito da un bianco massiccio con barba e capelli lunghi di colore biondastro e da due ragazze abbastanza insignificanti, una con abiti cenciosi ed una con una cortissima minigonna, che si mettono a riordinare la propria roba e a prepararsi qualcosa da bere dopo essere andate su e giù tra la tenda e i servizi. Noi, continuiamo invece a giochicchiare distrattamente. Adesso per esempio dovrebbe stare all'Ughino. Ma perché 'un gioca? Lo troviamo ammutolito e con gli occhi sbarrati davanti a sé e questa sua specie di trance in cui sembra esser caduto rimane inspiegabile finché, volgendoci verso il vicinato americano, non vediamo anche noi una delle due ragazze, quella con la minigonna, che, chinata sul fornellino lì tra la tenda e il muro, ci permette di godere dalla nostra postazione una completa osservazione dei suoi più intimi indumenti evidenziati dalla a dir poco provocante posizione. Ciò che ci sorprende è inoltre il vedere come il negro, seduto con la faccia a due spanne dal visibile popò, sorseggi invece indifferentemente la sua tazza di the.
Passato un lungo attimo di smarrimento, riprendiamo la partita, ma non con eccessivo entusiasmo, tanto che dopo poco, forse per l'avanzato stato di agitazione, l'abbozziamo. Ci mettiamo allora ad elaborare un po' di dati statistici relativi al chilometraggio finora totalizzato e al consumo di benzina sostenuto, che sembra a tutt’oggi abbastanza soddisfacente: undici chilometri e mezzo per litro. Il Gianni intanto, mentre stiamo scorrendo il programma che ancora ci rimane, comunica di aver intenzione, una volta arrivati a casa lunedì, di raggiungere in giornata i suoi al mare, per cui propone, onde evitare quel giorno di stancarsi troppo, di guidare per tutta la penultima tappa in modo da riposarsi fino a Firenze il giorno dopo. La variazione è facilmente accondiscesa dall'Ughino.
Mentre poi cerchiamo di trascorrere qualche altra decina di minuti ricordando la pazza giornata delle Australiane e le nostre esibizioni, si avvicina intanto l'ora di cena, che decidiamo di fare a base di pizza, anche per non passare da Napoli e non assaggiare neppure la locale specialità, benché per altro dopo la mangiata di oggi, prendere un the caldo e andare a letto sarebbe tutt'una. Comunque.
Alle 20.00 ci sediamo così ad un tavolino davanti al bar del camping, che funziona anche da pizzeria, mentre poco dopo ecco sedersi al tavolino vicino a noi i due americani, che cominciano a parlar fra sé sghignazzando buffamente ogni tanto. Davanti abbiamo invece una coppia di eleganti signori, tenuti evidentemente in una certa considerazione da parte del gestore del bar, che si dimostra molto confidenziale soprattutto con l'elemento femminile.
Arrivano intanto le tre pizze e le relative birre. La pizza si rivela né più né meno che una schiacciata rotonda con un po' di pomodoro e scarsissimo formaggio sopra ed è perciò alquanto deludente e insipida rispetto alle pizze che siamo abituati a mangiare altrove. Mah!
Pensiamo intanto che sarà meglio prima di andare a dormire di far invertire la posizione di quel Capri con il nostro 124 che attualmente è rimasto imbottigliato vicino alla tenda, in modo che domattina potremo partire subito senza dar noia a nessuno. Ne parleremo dopo col negro.
Finiamo intanto la pizza, che viene offerta per la cronaca dal Gianni, e torniamo alla tenda verso le 20.45, finendo a questo punto per continuare a giocare a carte onde trascorrere in qualche modo la rimanente serata. Poco dopo.... no! aspetta, vo a capoverso.
Poco dopo ecco rientrare alla base anche l'americano peloso insieme al negro, a cui Alberto propone in arrangiato inglese di scambiare la posizione delle rispettive macchine. La proposta è accettata e la manovra si risolve in due minuti. Tornato presso la tenda, il giovane di colore s'intrattiene ancora un po' con noi, o meglio col poliglotta Alberto, scambiandoci impressioni su macchine e motori in genere e in particolare sulle nostre e sul loro consumo. Rimaniamo altresì colpiti nel sentire per la prima volta la traduzione in inglese del nome del 124, che diventa appunto un curioso e insolito "a one hundred twenty-four", che lì per lì ci lascia un po' perplessi. Il negro torna poi alle proprie occupazioni e noi alle nostre carte.
Poi, quando ormai sono circa le 22.30, decidiamo di organizzarci per la notte. Riordinato il grosso e presi come al solito con noi portafogli e patenti, ci serviamo a turno dell'impianto igienico, piuttosto attrezzato e ben curato, salvo un W.C. malauguratamente intasato e per questo nauseabondo, e ci rinchiudiamo quindi nella nostra tendina facendo tra l'altro i commenti d'occasione circa le due coppie che abbiamo stanotte accanto.
Sono le 23.00 e un altro giorno è passato. A domani.