10 agosto - Pontecagnano – Lido di Castellaneta


Dopo una notte abbastanza tranquilla – senz’altro più tranquilla della precedente – ci svegliamo stamattina in modo però inaspettato e molto indesiderato: sono le 6.00 e sta piovendo a dirotto. Dentro siamo all’asciutto, ma un po’ d’acqua, data la violenza con cui vien giù, filtra ugualmente attraverso le pareti e lo spioncino situato proprio sopra le nostre teste.
La situazione è abbastanza critica, tanto che per qualche minuto, non sapendo che fare, restiamo fermi ancora in posizione orizzontale in attesa che spiova. Ma le speranze non sono eccessive. Inoltre c’è Alberto che ci assilla ammonendoci che è praticamente impossibile partire stamattina anche se smettesse di piovere, poiché non è buona norma del campeggiatore ripiegare la tenda quando è ancora bagnata, in quanto, dice, si sciupa; al che all’unisono il Gianni e l’Ughino esclamano un eloquente “ma chi se ne frega”. Tanto è vero che, deciso di continuare a tutti i costi la marcia secondo i programmi prestabiliti, il Gianni, vestitosi alla meno peggio, fuoriesce e, raggiunto il 124, lo porta in retromarcia – ma non con qualche difficoltà per via delle sguscianti ciabatte, inadattissime alla guida – presso la grondante tenda, rivolgendole il porta bagli in direzione dell’uscita, in modo da effettuare il più rapidamente possibile l’operazione di carico.
L’insistente pioggia sembra intanto esser diminuita d’intensità, anzi adesso pioviscola soltanto ed è quindi il momento buono per sbrigare tutte le faccende e toglier le tende nel più vero senso dell’espressione.
Così, dopo aver utilizzato i servizi, compiendo anche una breve corsetta per guadagnarli a causa sia della pioggia, che dell’urgenza, ed essersi lavati; provvediamo allo smontaggio della Canadese, che, ricorrendo a buone e a cattive maniere per ridurla al suo volume originale, aumentato considerevolmente per l’acqua che trattiene addosso, viene riposta nell’apposito sacco.
Tuttora in 124 regna ovviamente una paurosa confusione che ci ritarda non poco per poterla eliminare, ma alla fine – sono le 7.30 – siamo comunque in grado di partire.
Con i vetri appannati ed i vestiti un po’ umidi e, specie se di lana, abbastanza maleodoranti, raggiungiamo, attraverso un campeggio ancora immerso nel sonno, la direzione e, pagato il conto – 1250 lire – la strada in direzione di Paestum, proseguendo però una volta giunti a Battipaglia e dopo qualche attimo di incertezza, per Eboli. La strada è rettilinea, ma la presenza di alcuni incroci ed anche della vicina autostrada, che a chi domandiamo informazioni ci vuol far prendere ad ogni costo e che invece noi non vogliamo utilizzare assolutamente, ci fa sorgere in continuazione amletici dubbi circa la rotta da seguire.
Stamattina tra l’altro, per via di quell’acqua, non c’è stato nemmeno il tempo di mettere qualcosa sotto i denti e, con la misera cena di ierisera, è comprensibile se adesso un certo languorino di tanto in tanto ci attanaglia. Ci salvano due pacchetti di biscotti, residui della scorta fiorentina del Gianni, che in qualche modo impegnano per alcuni chilometri le nostre ganasce.
Raggiungiamo intanto Eboli, dove, anche se il serbatoio è abbastanza pieno, riteniamo opportuno fare un primo rifornimento, visto che tra poco saremo in mezza montagna. Si affrontano difatti dopo breve le prime salite, mentre il tempo forse comincia a favorirci. Sembra infatti che il nostro itinerario ci permetta di inseguire il sereno, dato che le minacciose nubi con cui ci siamo svegliati sono adesso ormai lontane e stazionanti sulla fascia costiera. Persistono comunque alcuni grossi ma isolati nuvoloni, come quello che inghiottisce la vetta di una montagna che costeggiamo vicinissimi e che, per i colori cupi di cui è caratterizzata, merita una foto.
Dopo aver fatto poi razzia di quelle poche more che ancora resistevano su un rovo polveroso situato proprio sul ciglio destro della strada ed essersi roviati un po’ le mani, nonostante il valido contributo del manico dell’onbrello, per cogliere anche quelle più in alto o più interne – come al solito le più belle – ripartiamo e, macinati qualche altro chilometro tra una curva e l’altra, avvistiamo una fontana che non ci lasciamo sfuggire per fare un po’ di scorta d’acqua in vista anche delle pastasciutte, che oggi non vogliamo assolutamente perdere. L’Ughino, vedendo che c’è già un tizio a riempire bottiglie e borracce, cerca di assicurarsi sulla potabilità dell’acqua, ma il tentativo non riscuote alcun successo per l’ostinato mutismo dell’interpellato; il che lascia supporre che fosse o sordo o molto più probabilmente scemo. Da un nostro approssimativo assaggio, diagnostichiamo comunque che l’acqua può essere tranquillamente bevuta, ma siccome a bordo abbiamo, tra l’altro, anche una scatoletta di steridrolo, ne utilizziamo un paio di pasticche per maggiore sicurezza.
Si riparte e più che andiamo avanti e più ci accorgiamo di andare verso il sereno.
Traversiamo intanto un lunghissimo ponte, che scavalca d’un botto il vastissimo e squallido greto di un fiume – o forse, viste le dimensioni, di una palude, prosciugatasi da qualche tempo – rimanendo colpiti soprattutto dallo sfondo veramente notevole: due alte pareti rocciose divise da un canalone e dominanti la estesa valle su cui, letteralmente aggrappato alla parete più elevata della pendice sinistra, si affaccia sulla sottostante vallata un paesotto diposto su diversi piani, il colore delle cui case, per tonalità simili a quelle della roccia, si confondono mimeticamente con la parete stessa.
Proseguendo, incontriamo dopo breve ancora un ponte, gettato stavolta su un vivo e allegro fiumiciattolo, che scorre fra verdi e fronzuti alberi immersi in una serena armonia estiva, ravvivata dai già splendenti raggi del sole. Sulla riva destra del fiume completa l’allegro quadretto una stazioncina ferroviaria tutta contornata dal verde, interrotto solo da una piccola macchia di rosso offerta da un vagoncino fermo su un binario.
Risaliti in 124 dopo una breve sosta, che ci ha permesso di collezionare anche questo paesaggio nel nostro diario fotografico, attraversiamo il ponte e, giunti sull’altra riva, ci troviamo di fronte ad un bivio, che, come al solito, ci rinnova la conseguente incertezza circa la deviazione da seguire. Salva la situazione un indigeno in Appia, che, fermato appena lasciato il ponte, ci illustra provvidenzialmente la via desiderata per raggiungere Potenza, consigliandoci per al tempo stesso e molto insistentemente lla nuova autostrada, che, dice, è bellissima e fa godere gli stessi paesaggi, che noi andiamo cercando con l’intenzione di percorrere la vecchia statale, la quale per altro, dice, è piuttosto dissestata. Sarà per un’altra volta, eh! Pensiamo tra noi e difatti, dopo esserci fatti un po’ distaccare, giriamo dalla parte opposta del casello, imboccato invece entusiasticamente dall’informatore di turno. Noi invece proseguiamo per la Strada Statale n° 94 e di chilometro in chilometro il sospetto che quel tizio percepisca una qualche percentuale dall’ente autostradale per ogni cliente acquistato, viene confermato nel costatare le ottime condizioni della strada, che costeggia per un bel tratto l’ampio alveo di un fiume, fiancheggiato a sua volta sulla riva opposta da un lungo susseguirsi di rilievi, sulle cui pareti scorre rettilinea la tanto pubblicizzata autostrada.
Dopo essersi fermati a Vietri di Potenza per dare un ulteriore contributo alle casse dell’AGIP, ed aver ripreso la marcia attraverso nuovi saliscendi, la nostra attenzione si concentra, abbordando un’ennesima curva, su di una ragazza, che, trovandola seduta lì sul parapetto di questa strada deserta e bardata poi com’è di zaino e attrezzature palesemente turistiche, ci fa subito supporre che sia in attesa di farsi dare un passaggio. Siamo preceduti però da un’850, che si ferma proprio davanti a lei, mentre noi superiamo in un promo tempo la curva fermandoci poco dopo curiosi di vedere come va a finire. Ripartita, delusa, l’850, è la volta di un camion: anche questo secondo “offerente” sembra però non faccia al caso della ragazza. Torniamo così un po’ indietro per vedere se è la volta buona, ma alla richiesta di Alberto (sì, perché ora i passaggi non si chiedono per avere, bensì per dare), ci sentiamo rispondere, che il suo programma è di raggiungere Potenza a piedi.
Ohibò”!
Questa è proprio nuova, pensiamo sbalorditi, ,a evidentemente la ragazza sta dicendo sul serio, visto che non siamo stati i soli a ricevere una parte simile. Meravigliati e d’altra parte anche un po’ delusi per la nuova occasione perduta, ripartiamo e, anche per evitare che quella strana mania di viaggiare a piedi ci contagi – non ne saremmo davvero preparati – imbocchiamo velocemente, dopo aver lasciato la statale, una superstrada senza pedaggio di recentissima costruzione, dove alcuni tratti difatti sono ancora in fase di rifinitura. L’assoluta mancanza di traffico ci mette in grado di migliorare un tantino la nostra media e diu procedere molto più distesamente lungo i vellutati rettilinei, dove ci improvvisiamo pure in un valzer automobilistico fuori programma, che ci fa arrivare all’uscita per Potenza con un discreto buon umore.
Prima di entrare nel centro della città, percorriamo qualche altro chilometro, incappando però ad un certo punto in un mastodontico autotreno con rimorchio che ci impressiona per le secche e frequenti inchiodate che dà prima di entrare in curva lungo un tratto di discesa, facendo addirittura fumare le numerose gomme, che per l’attrito con il bollente asfalto, lasciano sul piano stradale una lunga scia nera. Dopo essersi liberati dell’ingombrante e mal guidato camion, che nel frattempo è entrato in un cantiere, raggiungiamo un centro abitato e, visto che il serbatoio piange ancora, ci riforniamo di nuovo in previsione anche della strada da percorrere stasera. Quindi,dopo aver superato un passaggio a livello e una breve salitella, entriamo in Potenza, città a noi famosa quasi esclusivamente per il fatto che ha visto i natali dello stimatissimo prof. Giocoli.
Il parcheggio del 124 si rivela subito abbastanza arduo, non solo per l’ormai consueto traffico cittadino, ma anche per le strade piuttosto strettine. Gira e rigira, ci ritroviamo di nuovo in periferia, ma, dal momento che lungo una strada più larga, anche se in discesa, avvistiamo un provvidenziale buco, decidiamo di lasciare lo stesso la macchina qui e di addentrarsi quindi in Potenza a piedi. Sono le 11.00.
Scendendo lungo questa stessa strada, troviamo un negozio di elettrodomestici, dove riusciamo finalmente a trovare e a comprare due preziose cartucce di gas, nonché un po’ di pile per la torcia dell’Ughino. Resici conto della posizione del centro della città, imbocchiamo quindi la prima contrada a destra. La strada, incredibilmente ripida e con pire qualche curva, su cui però le automobili sfrecciano via velocemente, sbocca su una via un più decente, che ci permette di riprender fiato e cominciare a cercare un alimentari per fare un po’ di provviste. Troviamo addirittura un supermarket, cosicché l’operazione spesa è semplificata al massimo. Prendiamo qualche scatoletta di tonno e di carne, un paio d’etti di formaggio grana e, molto importante, un tubetto di sugo già pronto. Paga ancora l’Ughino, che fino ad ora ci ha praticamente spesato il viaggio, ed usciamo. Passiamo davanti ad un cinema, poi affrontiamo ancora una breve salitina – com’è faticosa questa città! – e poi pieghiamo sulla destra. Più di una volta costeggiamo case e costruzioni varie, certo, non nelle migliori condizioni, ma tutto sommato c’è vita. Ce ne accorgiamo soprattutto nel corso, piuttosto stretto e accessibile solo ai pedni, dove un vorticoso viavai di persone ci incuriosisce e ci fa sostare un pochino in osservazione, anche per dar modo ad Alberto di rifornirsi di pellicole vergini e all’Ughino e al Gianni di scegliere qualche cartolina e di prendere anche altrettanti francobolli, per i quali però risulta inesistente l’imbarazzo della scelta. Attraversata poi la piazza del mercato, tra un brulichio di gente e tante bancarelle, entriamo nella vicina chiesa di San Francesco, niente di speciale, mentre, localizzato un fornaio, incarichiamo l’Ughino di procurare un po’ di quel prezioso alimento, senza il quale nessun altro commestibile potrebbe definirsi companatico: in breve d’un tozzo di pane. L’attesa si protrae forse un po’ più del previsto, ma è comunque gradita, dato che in tal modo, sfruttando il forno acceso, possiamo riscaldarci un po’ e dimenticare per il momento il noioso venticello freddo che ha caratterizzato questa escursione, ma che d’altra parte è però concepibile, se si pensa che Potenza è a oltre 800 m. sul livello del mare. Alberto ed il Gianni ammirano intanto il perfetto stile nel fare le compere dell’Ughino, che, senza stonare affatto, se ne sta lì compitamente, anche lui con la borsa al braccio, in mezzo ad un branco di massaie, anche loro in attesa del desiderato pane. Tornati a frascheggiare, nostro malgrado, per le vie di Potenza, abbiamo una mezza idea di domandare a qualcuno dove possa trovarsi la casa natale del Giocoli, ma, considerando molto intelligentemente, che la fama del nostro beneamato insegnante, per quanto illustre sia, non potrà raggiungere apici così elevati, ci rinunciamo e così, ripercorso l’itinerario di dianzi – adesso per fortuna in discesa – raggiungiamo il fedele 124.
Di nuovo a bordo, provvediamo alla scrittura di alcune cartoline, di cui ne riserviamo una – manco a dirlo – al succitato professore di diritto, smistandoci quindi i francobolli nei diversi tagli in relazione al numero di parole utilizzare per assolvere al giornaliero invio di saluti.
Si riparte. Sono le 12.00, vale a dire mezzogiorno. All’incrocio in fondo alla strada dove avevamo sistemato la macchina, imbocchiamo sulla destra la via per Matera, prossimo obiettivo di una certa importanza della tappa odierna, sfruttando di lì a poco una seconda fontana per riempire d’acqua le bottiglie che costantemente ci portiamo appresso, per evitare di trovarcene sprovvisti nell’emozionante momento di mettere la pensola sul fuoco, ma che di tanto in tanto scendono di livello per qualche dissetante sorsata, che l’equipaggio si concede.
Lasciata Potenza, ci ritroviamo di nuovo in aperta mezza montagna su una strada niente male, anche se ovviamente le curve sono a dir poco all’ordine del mezzo chilometro. Sopra di noi, a ridosso della parete, ci sovrasta ad un certo punto e per un bel tratto una nuovissima autostrada, che poi ci passa sulla destra con efficientissimo viadotto e si perde quindi in più lontane vallate. Ci avviciniamo intanto a Vaglio Basilicata e proprio mentre stiamo attraversando il centro del piccolo paese, ci colpisce, fermo sulla sinistra, un furgoncino blu targato G.B. e con una vistosa scritta bianca sulla parte posteriore, dove si può leggere Australia. “Loro, certo, vanno più lontano di noi!”, pensiamo, ma è questa l’unica considerazione che ci viene da fare in proposito, poiché, ora come ora, ciò che maggiormente ci interessa è di poter trovare al più presto un ombroso posticino, dove consumare tranquillamente il nostro quotidiano arrangiatissimo pranzo.
La migliore occasione si presenta verso mezzogiorno e mezzo su un rettilineo, a circa metà del quale si apre uno spiazza tino sulla destra adibito molto probabilmente allo scarico di materiali stradali, ma che adesso, anche per la presenza di un ombroso albero, ci sembra ospitale anche per imbandire un modesto desco.
Posteggiamo vicino ad un cumulo di ghiaino il 124 e tiriamo fuori dal baule tutto il necessario per l’occasione, compreso pure il transistor, che stranamente adesso funziona dopo una mattinata balorda. Messa la pentola sul riattivato fornello, riparato come al solito dalle raffiche di vento dal tavolino pieghevole, Alberto, non resistendo ad un allettante languorino che lo stuzzica, divide in due il cocomero – stranamente ancora intatto – e, dopo aver girato e rigirato più volte fra le mani una metà della voluminosa anguria, torna a cedere di fronte alle proprie golose tentazioni, tagliandone una bella fetta, che, noncurante delle eventuali osservazioni degli altri, si gusta placidamente in quattr’e quattr’otto. Il primo apprezzato assaggio è seguito in breve da altre due o tre identiche porzioni, cosicché a questo punto l’Ughino e il Gianni, nel timore – visto l’andazzo – di non riuscire neppure ad assaggiarlo, si servono a loro volta, riducendo così la metà di cocomero intaccata a ben ridotte dimensioni. Poi, forse un po’ stufo – di già?! – della funzione di cuciniere, o forse, molto più probabilmente, già abbondantemente annoiato dall’assoluta mancanza di compagnia, Alberto lancia l’idea di affiggere sul 124 un annuncio di tipo economico, che tradotto immediatamente su un foglio di carta suona così: “Cercasi cuoche”. La realizzazione si rivela abbastanza semplice, tanto che dopo qualche minuto e con l’ausilio di due pezzi di scotch, il 124 è già conciato uso carro carnevalesco.
L’acqua intanto – tornando a cose serie -  comincia a bollire. Dopo una rapida consultazione per stabilire la dose di pasta odierna, che alla fine risulta ancor più abbondante di sabato – il che è tutto dire – si assiste al loro tuffo in pentola e al magistrale rigirare del cuoco Alberto. Spento quindi il fuoco dopo il previsto periodo di cottura, si provvede con la solita catena dell’altro ieri a renderla asciutta e successivamente a sugo strizzandoci violentemente sopra quasi tutto il tubetto acquistato a Potenza. Sistemato poi il tavolino nella sua posizione naturale a ridosso dell’albero, per evitare – non si sa mai – inaugurabili investimenti da parte di autisti mezzi addormentati, ci serviamo e con la radio che ci stila la classifica di Hit Parade, cominciamo a mangiare. Anche oggi il cuoco Alberto sembra abbia fatto ottimamente il suo dovere, tanto la prima porzione scompare in fretta (ma non sarà piuttosto la fame?), per lasciare il posto all’ormai tradizionale bis.
Tranquillamente vediamo intanto transitare in giù lungo il rettilineo su cui ci siamo appostati, una giovane coppia, probabilmente inglese, che, su due classici Solex monoposto procedono in direzione di Potenza.
Buttati via frattanto le codelline di plastica utilizzate, passiamo al secondo costituito oggi dalla carne in scatola comprata dianzi – Manzotin per la cronaca – completando successivamente il pranzetto cion ulteriori fette di quella prima metà di cocomero, di cui rimangono adesso soltanto parecchie bucce sparpagliate fra i cespugli sottostanti. L’altra metà viene invece gelosamente racchiusa in una busta di cellophane e sistemata al fresco – si fa per dire – sotto i sedili.
Picchia intanto un bel solicello: proprio adatto nel momento della siesta a conciliare il sonno. Il Gianni difatti, spaparanzato sulla seggiolina, propone, già in preda ad una sonnolente cascaggine, di sostare il più a lungo possibile qui, visto che si sta d’incanto; Alberto invece dice di non perdersi ulteriormente in ciance e di partire quasi subito per essere a Matera col sole ancora alto. L’Ughino d’altra parte, sentita l’una e l’altra campana, prende e comunica agli altri di avere un urgente e improrogabile bisogno fisiologico, di modo che, preso tutto il necessario all’uopo, s’imbosca, per non rovinare ovviamente la digestione degli altri, in una vasta pinetina proprio sopra la strada.
Alberto ed il Gianni passano intanto qualche altro minuto in ascolto della radio e in ammirazione del paesaggio circostante, poi, così come se n’era andato, ecco ritornare il più leggero Ughino, con cui, dato che son già le 14, cominciamo a caricare ogni cosa e a riordinare nel giro di una decina di minuti. Il programma di stasera appare, per lo meno sulla carta, piuttosto nutrito, avendo intenzione tra l’altro di soffermarci un po’ a Tricarico, che la guida ci indica interessante soprattutto per la cattedrale, e quindi di raggiungere Matera al più presto possibile, per poter godere al massimo la sua bellezza.
La marcia continua però ad essere tranquilla, né potrebbe essere diversamente per intuibili motivi di sicurezza, visto che la strada continua ad assomigliare ad una tortuosa serpentina.
Poi, ad un certo punto, dopo qualche chilometro insignificante dal punto di vista della cronaca, avvistiamo quel pullmino, che già avevamo notato dianzi senza peraltro che allora il nostro interesse superasse lo stadio di semplice curiosità dovuta a quella vistosa scritta posteriore, in quanto sicuramente non ci eravamo resi conto che gli elementi di maggior interesse dell’intero marchingegno locomotivo erano bensì quattro bionde ragazze sole e di dubbia provenienza – considerando il contrasto esistente fra la cubitale iscrizione bianca e la targa inconfondibilmente inglese del furgoncino – che se ne stanno andando bordeggiando bordeggiando proprio nella nostra stessa direzione.
E’ questa senza dubbio l’occasione che attendevamo fin da quando lasciammo Via Pisana e così, pieni di emozione, cominciamo, capitanati da Alberto, veramente infaticabile in questo settore, a stendere il piano di abbordaggio.
Ammaestrati però dall’ammonitrice esperienza dell’altro ieri, riteniamo opportuno operare comunque subito un sorpasso in modo da poterle vedere pure in viso e decidere quindi se tutto sommato il gioco vale la candela. La conseguente e doverosa analisi ci fornisce fortunatamente il risultato sperato, dandoci così il nulla osta per dare inizio all’arrembaggio.
Rompiamo il ghiaccio, tanto per gradire, indicando loro il cartello affisso or ora sulla fiancata destra del 124, ma l’annuncio ovviamente non viene interpretato. Ci pensa allora Alberto a tradurre il messaggio in perfetta lingua inglese e, dopo averlo riprodotto su un nuovo foglio di carta, ad esporlo durante il successivo sorpasso alla gentile attenzione della vigile e tanto prudente autista, che però insieme alle colleghe, rimane abbastanza indifferente continuando ad occuparsi come se niente fosse dei casi propri: una studia la carta geografica, altre due se ne stanno dietro spaparanzate in oculata osservazione del panorama, quella al volante è invece tutta intenta, oltre a seguire la tortuosa strada, ad evitare anche noiose collisioni durante i nostri e i loro conseguenti sorpassi. Evidentemente perciò il primo messaggio non ha avuto lo sperato successo, ma non per questo disperiamo, né tanto meno ce ne freghiamo, poiché quattro straniere, sole e abbastanza carine, non si trovano, certo, dietro ogni angolo.
Alberto sicché ci riprova ed espone adesso un secondo appello appropriatamente tradotto, chi in italiano suonerebbe così: “Siamo troppo soli”, ma che la versione in lingua straniera, a causa dello scarso vocabolario linguistico del nostro interprete, deforma nel suo originario significato, facendo sì che noi si risulti addirittura malinconici. Il che non è assolutamente vero, infatuati come siamo e decisi a spuntarla.
Dopo un ulteriore sorpasso però, a causa di una curva coperta, le perdiamo di vista, vedendoci quindi costretti a fermarci sul ciglio della strada in speranzosa attesa e a non ripartire finché il prezioso pullmino non riappare e, superandoci di nuovo, ci invita ad un altro attacco.
Numerosi si rinnovano intanto i sorpassi, durante i quali – è facile da immaginare – tutto ci è concesso per poter conquistare l’attenzione delle quattro ragazze, che d’altra parte però sembrano decise a non darci spago.
Attraversiamo ora Tricarico, ma la programmata sosta, visto che le strangers proseguono, è soppressa all’unanimità e rimandata a data da stabilire; il paese, anzi ci passa addirittura inosservato. Pensiamo intanto di offrire loro qualcosa, da un paio di sigarette ad una fetta di cocomero, ma l’iniziativa non ci sembra di buongusto e così viene subito accantonata.
Ecco giungere adesso in un altro paesino e la pretesa di sapere a questo punto il suo nome è quanto meno pretenziosa, rendendosi conto di come le nostre menti siano ben lontane dal preoccuparsi di dare ogni tanto un’occhiata ai cartelli stradali. Sappiamo comunque – se il fatto può interessare – che il paese è dotato di una pompa di benzina; costatazione questa fatta solamente perché le quattro straniere ci si fermano per fare il pieno. Alberto, l’unico che cerchi e riesca, per la verità con qualche successo, a masticare un po’ d’inglese, si precipita allora al finestrino della conducente, per sapere la loro esatta direzione e se vogliono fare il viaggio in nostra compagnia. Nel frattempo l’Ughino, che fino ad ora è rimasto dietro in preda ad un noioso sonno, si ricorda di aver con noi una pistolina a schizzo comprata a Firenze in previsione di simili occasioni e che non troverebbe migliore impiego se non in questa circostanza. Trovata una fontana, la riempie, ma non fa a tempo a tornare in macchina, che per difetti di fabbricazione è di nuovo vuota e perciò inutilizzabile. Torna intento Alberto con le notizie: sono australiane, nonostante il furgone sia targato G.B.; vanno nella stessa nostra direzione, ma non si fermano a Matera; continuano infatti per Brindisi, dove, dice, verso le 18.00 devono prendere un traghetto per la Grecia. Questo particolare ci stupisce un poco, visto che sono circa le 15.30 e che praticamente è impossibile sperare di poter arrivare per le 18.00 sull’Adriatico, cioè coprire circa duecento chilometri, tanto più se continuano a procedere con quell’andatura lenta che le ha fin ora caratterizzate. Ci sembra perciò che il loro non sia altro che un pretesto per sganciarsi da noi e proseguire indisturbate.
Aspettiamo comunque la loro partenza dal distributore, ma dopo qualche centinaio di metri veniamo superati da una mini targata Matera, che incollando csi dietro l’appariscente furgocino, sembra voler sostituirsi a noi in questa operazione di abbordaggio. Cosicché la presenza di quei tre tizi in mini e il già ricevuto rifiuto, anche se non esplicito, da parte delle cangurelle, ci autorizza sufficientemente a gettare la spugna anche se a malincuore. Superiamo così il nuovo tandem appena formatosi e riprendiamo la nostra marcia abbastanza speditamente.
Torna intanto l’interesse per il paesaggio, che si presenta adesso non eccessivamente vario, ma meritevole lo stesso di una certa attenzione, se non altro per il fatto che è tipicamente lucano: sulla destra scorrono uno dietro l’altro campi variamente coltivati, tra qualche casa colonica e un filare di alberi; sulla sinistra si alternano invece ancora vaste coltivazioni a bassi rilievi; la strada è ora alberata, ora segnata solamente da paracarri, ma sempre dritta e abbastanza curata nel fondo stradale. La conversazione nel frattempo diventa sempre più laconica, favorita in questo quasi certamente dall’ancora scottante deluzione di non aver potuto, più che voluto, approfittare dell’occasione presentataci, ma naturalmente nessuno è disfatto nel morale. Ora ci attende Matera e poi altri nove giorni di viaggio e questo è sufficiente.
Raggiungiamo intanto ad andatura ridotta – tanto che in lontananza è ancora visibile il blu del pullmino – un bivio, di cui imbocchiamo, dopo una certa indecisione fugata però da una rapido controllo sulla carta, la deviazione a sinistra che sembra sia più breve dell’altra nel portare a Matera. Istintivamente ci giriamo indietro per vedere che decisione prendono le australiane, tornate di nuovo sole, e con un po’ di amarezza vediamo scomparire il simpatico furgoncino nella direzione opposta alla nostra. Pazienza. E’ l’unico commento alla erronea scelta compiuta, anche se è già da un pezzo che ci siamo messi l’animo in pace.
Non facciamo però a tempo ad intessere un altro discorso, che dietro di noi ecco sbucare di nuovo con tutto il suo prezioso carico quel celestiale aggeggio targato G.B. Com’era da prevedere torna immediatamente l’allegria, decidendo subito di non perdere ulteriore tempo e di farci sorpassare. Poi, durante il successivo superamento da parte nostra, il Gianni si mantiene a fianco del pullmino per qualche momento permettendo così ad Alberto, affacciato al finestrino, di scambiare qualche parola con le australiane per avvertirle che è impossibile ormai, vista la distanza e la loro andatura, che possano raggiungere Brindisi per le 18.00. Le sue parole e le loro di ritorno risultano però confuse ed incomprensibili per ambedue a causa dello strano e, a pensarci bene, preoccupante rumore di ferraglia proveniente dallo sgangherato furgoncino, nonché naturalmente a causa della velocità.
Vista l’inutilità di comunicare in movimento con quelle refrattarie straniere, dal momento poi che non siamo dotati né di bandierine di segnalazione, né tanto meno di megafoni, urge fermare le quattro biondine e chiarire quindi la situazione. Ma come? A qualcuno, dopo una breve ma succosa spremuta di meningi, gli si accende con successo la proverbiale lampadina e, steso e approvato insieme agli altri il piano d’attacco, diamo inizio alla relativa realizzazione. Accelerando improvvisamente, seminiamo ben presto il nostro obiettivo e, dopo aver fatto quasi un chilometro, adocchiamo proprio all’uscita di una curva e fra i primi di un lungo viale, un grosso albero sulla destra che ci sembra proprio ideale per la nostra manovra. Giunti a qualche metro dal grosso tronco, il Gianni frena rapidamente e mette il 124 quasi di traverso per la strada con il muso in corrispondenza e vicinissimo alla pianta. Poi, spento il motore, scende rapidamente di macchina e alza il cofano motore, mentre gli altri, e lui stesso tornato al posto di guida, si lasciano andare, tenendo gli sportelli spalancati, nelle più tragiche e il più possibile realistiche posizioni per rendere più veritiero possibile il simulato incidente. Si spera in tal modo, che, di fronte all’accaduto – che poi per fortuna non è accaduto per niente – le straniere si degnino di fermarsi per portare gli eventuali primi soccorsi ai superstiti o constatare magari il decesso delle vittime. Evidentemente però, insospettite soprattutto dalle nostre facce, contratte più che per sopportare il dolore, al fine di trattenere una grande e irrefrenabile risata, le quattro australiane mangiano la foglia e, dopo essersi leggermente soffermate a fianco del 124, se ne vanno via tranquillamente e un po’ sorridenti.
Il fallito tentativo non ci demoralizza affatto e così, convinti che ormai il ghiaccio si sia finalmente rotto, proseguiamo il nostro show. Chiusi gli sportelli e ovviamente il cofano motore, che, intuitivamente, riteniamo in quella posizione di troppo ostacolo alla visuale del pur volenteroso Gianni, ci rimettiamo in carreggiata e, dopo una sparata per riprendere il contatto con le australiane, le superiamo di slancio sventolando un fazzoletto bianco e imitando alla meno peggio con la bocca l’urlo lacerante della sirena. Dall’espressione delle quattro compagne di viaggio si direbbe che siamo stati abbastanza divertenti, per cui non ci rimane che insistere.
Imboccando perciò un ponte lungo qualche centinaio di metri, che supera d’un botto l’ampissimo e squallido alveo di un fiume, defluente invece minuscolo e insignificante al centro della petrosa distesa, ci fermiamo all’improvviso facendo scendere precipitosamente Alberto, che, appoggiato al parapetto del viadotto, dà sfogo, con una certa abilità scenica, ad impellenti ma inesistenti urti di vomito. Il pretesto per costringere le marsupiali a fermarsi finalmente non ha però ancora una volta il desiderato successo, dal momento che dopo aver rallentato un pochino nel superarci ed essersi rese conto di tuta la messa in scena, ripartono subito ma evidentemente divertite delle nostre trovate. Il che è di buon auspicio.
Ripreso a bordo Alberto, effettuiamo ancora un sorpasso e, ancor prima di lasciare il ponte, ci fermiamo di nuovo sul ciglio destro: è ancora Alberto, che, sceso di macchina in evidente stato di agitazione, si avvicina alla spalletta e finge di buttarsi nel vuoto, quasi a voler dimostrare la propria disperazione per gli infruttuosi tentativi operati per poter conoscere le quattro esotiche ragazze, che nel frattempo ci passano ancora accanto sorridenti, ma ancora decise a non fermarsi.
E l’inseguimento continua. E’ la volta dell’Ughino adesso, che, vinto un certo e comprensibile senso di idiosincrasia, si lega intorno alla faccia il cencio unto e bisunto, solitamente adibito al periodico controllo dell’olio, e, assumendo una grinta da bandito, la più terrificante possibile, si butta letteralmente fuori dal finestrino e con la pistolina a schizzo – quella maledetta pistolina! – spara, naturalmente con la bocca, visti i nostri ridottissimi mezzi, qualche colpo contro il mezzo corazzato nemico, dal cui interno le quattro braccate rispondono al nostro fuoco con lo scatto di qualche istantanea.
Il continuo carosello di sorpassi diventa intanto sempre più fitto e naturalmente risulta possibile solo grazie all’inesistenza di traffico e alla strada abbastanza larga e per lunghi ratti rettilinea, che stiamo percorrendo. Non mancano comunque precipitosi rientri per l’improvviso sbucare di una macchina in senso inverso o per l’avvicinarsi di una curva coperta.
L’Ughino prende adesso il volante, mentre il Gianni passa dietro a collaborare con Alberto nella ricerca di nuove trovate. Una di queste scaturisce dalla intelligente considerazione del fatto di trovarci a che fare con gentili donzelle e che quindi è d’obbligo ricorrere ad uno dei mezzi, dice, più eloquenti con il sesso debole, vale a dire l’omaggio floreale. Siccome però, com’è facile immaginare, non abbiamo a disposizione né un fornito fioraio, né un roseto o un filare di ben coltivati tulipani, ci rassegniamo a cogliere, in mancanza di meglio, qualcuno di quegli stupidi fioracci di campo bianchi con la corolla ad ombrello e con lo stelo peloso, che, fermandoci un attimo, individuiamo sul ciglio destro della strada lungo un breve pendio. Ne facciamo un mazzetto, che, affiancandoci per l’ennesima volta al pullmino, lanciamo in omaggio alle belle straniere, mentre, sporgendosi dal finestrino con uno di quei fioracci in bocca, cerchiamo di assumere – ma ci vorrebbe altro! – la fatale e tragica espressione valentiniana. Il cavalleresco gesto sembra però essere gradito ugualmente.
La marcia intanto prosegue. Un campo in preda alle fiamme per giustificati motivi di rotazione agraria, stimola adesso la fertile fantasia di Alberto, che non perde l’occasione di imporre una nuova fermata per scattargli una foto.
Ripartiti poi, e, compiuta una nuova manovra di sorpasso, ci fermiamo poco dopo stavolta in prossimità di una contrada e, scesi tutti e tre di macchina, cominciamo a spolverare la sede stradale in onore delle sempre più lusingate straniere, le quali senza dubbio, una volta rimpatriate, avranno modo di disporre, dopo questa esperienza, di tutti gli elementi necessari per poter relazionare i propri compatrioti su qualsiasi aspetto degli strani e bizzarri costumi italiani.
Ci lasciamo di nuovo sorpassare e quindi operiamo a nostra volta un’identica manovra nei loro confronti, per mettere in grado Alberto di spenzolarsi il più possibile dal finestrino per poter chiedere alle quattro foreste di volersi fermare un momento e di scattare almeno una foto ricordo. L’invito è reso comunque molto più efficace mostrando macchina fotografica e cavalletto, piuttosto che a mezzo delle risorse sufficienti alla bisogna. Gli altri due non ci si provan neppure. Nel complesso sembra però che abbian capito. La richiesta infatti, se Dio vuole!, è finalmente soddisfatta.
Ci fermiamo dietro il furgoncino, da cui ecco scendere abbastanza sorridenti le quattro inseguite, che, dopo aver visto finora soltano a mezzo busto, possiamo adesso ammirare in formato integrale, non risultando per altro ancora una volta niente male. Alberto, fotografo ufficiale, prepara tutto l’occorrente e poi si schiera tra le quattro biondine in attesa che l’autoscatto compia la sua funzione, Fatta! Non c’è tempo di scambiare qualche altra parola – anche se detta eventualità sarebbe risultata abbastanza problematica almeno per il Gianni e l’Ughino, capaci forse di esprimere in pieno le proprie chance poliglotte solo in risate, singhiozzi, starnuti e pure in ammiccamenti vari – che tutt’e quattro sono di nuovo a bordo di quel catorcio azzurro, il cui interno appare in preda ad un’impressionante confusione tra vestiti e oggetti diversi in caotica disposizione, tanto che, risalendo in 124, abbiamo il piacere, quantunque illusorio, di crederci in un ordinato e ben curato salottino.
Riprendiamo intanto la marcia. Adesso, dal momento che abbiamo raggiunto, anche se – sob! – solo in parte minima, lo scopo prefissoci, viaggiamo tranquillamente in seconda posizione, ma certo non con poca rabbia per l’occasione che sta irrimediabilmente sfuggendoci e per l’impossibilità di capire il perché di tutta quella loro fretta, per altro inutile, se, stando alle loro dichiarazioni, vogliono arrivare a Brindisi per le 18.00. Comunque.
Il Gianni propone un questo momento di comunicare loro i nostri nomi e relativi indirizzi; proposta, che, dopo una certa titubanza da parte degli elementi maggiormente impegnati dell’equipaggio, viene approvata e, ottenuta l’autorizzazione, realizzata con la compilazione di un pezzo di carta, che viene quindi porto alle ragazze durante un successivo sorpasso.
Entriamo intanto in Matera. Sono le 16.20. La strada, dopo un lungo viale, sfocia su un’ampia piazza ellittica, che percorriamo nella sua lunghezza fermandoci poi dalla parte opposta a quella da cui eravamo entrati, per poter salutare le simpatiche compagne di viaggio, che, dovendo proseguire a questo punto per un’altra direzione, ci stanno adesso invitando con grandi gesti a fermarci un momento. E’ il poliglotta Alberto a correre verso il furgoncino e a porgere i saluti anche in rappresentanza degli altri due, ricevendo per contro oltre ad una stretta di mano un prezioso biglietto contenente i loro nomi e indirizzi e contenente pure la spiegazione dell’atroce dilemma sulla loro ingiustificata fretta. Dalla rapida traduzione delle quattro parole che ci hanno scritto, pare evidente che l’equivoco sia nato soltanto per colpa della scarsa capacità interpretativa di Alberto, visto che alle 18.00 avevano sì un appuntamento a Brindisi, ma non con la supposta nave, bensì con alcuni loro amici provenienti da altre direzioni. L’eventuale ritardo nel raggiungerli non avrebbe sicché comportato niente di disastroso per il loro programma.
Messa fuori la manina di prammatica e agitata convenientemente alla circostanza in segno di saluto – che più che un arrivederci è quasi senz’altro un addio! – ci addentriamo nel centro della città.
Adesso l’unica preoccupazione, visto che la sperata possibilità di intrecciare scambi culturali tra Italia e Australia con le quattro ragazze e di intrattenere magari con loro non solo rapporti di tal genere è sfumata; l’unica preoccupazione, si diceva, è di trovare subito i famosi Sassi di Matera e accumulare il maggior numero di ricordi e di impressioni di questa città, dipinta – ora staremo comunque a vedere – come una delle più suggestive d’Italia.
Dopo aver ricevuto qualche informazione più o meno esauriente, riusciamo a localizzare la parte vecchia di Materia, di cui successivamente percorriamo alcune strettissime stradine in pietra a tratti molto ripide e serpeggianti tra due ali di modeste casupole ad un piano, che appaiono di un colore bianco intenso, costruite come sono con quei mattoni di gesso, che vediamo fabbricare con rudimentali arnesi anche lungo la strada, attribuendo al paesaggio un carattere vagamente orientale. Il cielo è piuttosto nuvoloso, adatto per ricevere l’attributo di plumbeo, mentre il sole stenta a penetrare attraverso la densa cortina di nubi grigiastre che sovrastano la città rendendola al tempo stesso ancor più tetra e tragica. Raggiungiamo una piazzetta, dove, seguendo l’esempio di altri turisti che ci hanno preceduto – ce ne sono anche di Arezzo e il fatto ci rallegra molto – posteggiamo il 124 e, muniti di tutto l’occorrente, diamo inizio all’escursione di turno.
Lo spiazzato, su cui si erge tra l’altro una chiesetta, è cinto in direzione della gravina da un parapetto al di là del quale, affacciandosi, vediamo strapiombare vertiginosamente il vuoto. La parete rocciosa precipita infatti senza interruzioni per qualche centinaio di metri fino a lambire l’alveo del sottostante fiumiciattolo, per poi risalire sempre ripidissima ed impervia dalla parte opposta della vallata, che, distendendosi per diverse centinaia di metri con le medesime caratteristiche, fa venire alla mente un canyon. Analogamente infatti è molto probabile che il fenomeno sia stato prodotto dall’erosione operata da quel misero corso d’acqua che scorre laggiù in fondo, le cui piene nell’arco di chissà quanti millenni avranno scavato questo lungo e profondo canalone, agevolato in questo soprattutto dalla particolare costituzione calcarea della roccia. La parete di rimpetto presenta infatti, in posizione molto elevata, numerose caverne, quasi certamente dimore dei nostri preistorici antenati, la cui posizione contribuisce ad avvalorare l’ipotesi che un tempo il letto del succitato fiume si trovasse ad un livello molto più elevato. Alquanto suggestiva è la vista di queste grotte, ma, considerando che siamo nel 1970, non son certo da meno come squallore le numerose abitazioni, dichiarate inabitabili solo un paio di anni fa, ricavate nel calcare del sasso su cui ci troviamo adesso. Seguendo un viottolo più o meno lastricato – sì perché di strada sarebbe esagerato parlare – ci inoltriamo tra queste spelonche scavate nella roccia e sistemate alla meno peggio in modo da fare assomigliare il tutto ad una casa con muri di gesso di discutibile resistenza. E’ uno spettacolo che senza dubbio da pensare. L’interno presenta il più delle volte una sola stanza, o meglio un solo vano, per altro piccola e ovviamente mal sagomato a causa della roccia spesso sporgente perché inscavabile. La drammaticità di questa realtà è data tra l’altro dalla presenza sul lato di ogni porta del rispettivo numero civico, simbolo di una certa raggiunta civiltà. Sopra, sotto, ovunque si aprono una dietro l’altra, incassate magari fra di loro nel senso che l’una s’incunea sotto il pavimento dell’altra, centinaia di queste catapecchie, ridotte spesso in ancor peggior stato dai ragazzi della città, che a quanto pare da un paio d’anni a questa parte trovano abitualmente in esse il luogo ideale per i loro convegni diurni e magari anche notturni. Ancora un po’ allibiti dall’incredibile spettacolo, continuiamo ad addentrarci in questa città ormai, finalmente, morta e quindi torniamo indietro dopo aver scattato qualche foto ed aver considerato il personale niente male (ci va anche di rima, senti) di una visitatrice vestita di rosso. Ripercorrendo a ritroso la strada, ci affacciamo di tanto in tanto al parapetto, che fortunatamente in questo tratto esiste, permettendoci di rinnovare così, senza i rischio di dover emulare sfortunati tentativi leonardeschi di volo umano, la visione del vertiginoso abisso. L’Ughino cerca per più di una volta di centrare con qualche sasso il fiume sottostante, ma, per quanto ce la metta tutta e l’improvvisato tiro a segno appaia tra l’altro piuttosto semplice a causa della prospettiva falsata dal notevole dislivello, i suoi lanci non risultano efficaci. Tornati nella piazzetta con gli occhi sempre incollati alla voragine, siamo avvicinati da un ragazzino sui 10 anni, biondo, dagli occhi azzurri, che ci mette al corrente di un po’ di storia della gravina, la quale, dice, ha ispirato pure l’illustre Pasolini P.P. per ambientarvi il famoso film “Vangelo secondo Matteo”. Quell’ulivo laggiù in fondo per esempio, è servito per la ripresa del suicidio di Giuda. Riusciamo inoltre a sapere che è possibile raggiungere, usciti dalla città, la parete opposta della vallata. La prospettiva ci sembra interessante e, dopo aver dato un’ulteriore occhiata al panorama visto da questa parte, risaliamo in 124 per raggiungere l’altro versante della voragine.
Ripercorse le ripide e strette stradine di prima e attraversato di nuovo parte del centro di Matera, ci ritroviamo così di nuovo sulla statale, che adesso compie un ampio giro attorno al canalone e che dopo qualche chilometro lasciamo per imboccare una deviazione, che a lume di naso ci sembra quella che fa al caso nostro. E difatti, compiuta una breve salita, ritroviamo la stessa vegetazione e le solite rocce tipicamente macchiate di nero già notate da Matera. In ultimo, dopo aver parcheggiato il 124 sul ciglio della strada entro un’apposita piazzola di posteggio, ed essersi avvicinati al baratro, ecco là davanti a noi Matera con la sua parte nuova a destra, il suo campanile al centro e quindi, dominante tutta la parte sinistra del panorama, la spettrale visione della città vecchia appena visitata, che da questo punto di osservazione e con l’ausilio della luce del sole resa grigia e tetra da immobili nuvoloni, ci appare ancor più macabra, irreale. Scendendo un pochino lungo la fiancata del rilievo notiamo a destra, incassata nella parete, una casa – disabitata adesso, ma, certo, non da secoli! – che presenta all’interno più di una stanza, sulle cui pareti si riesce ancora ad intravedere qualche affresco rovinato dal tempo e dalla fuliggine, la quale ha annerito inoltre buona parte delle mura, riempite per altro in ogni parte di firme e scritte varie, testimonianza di un certo movimento turistico. La stanza più grande presenta sul soffitto un’apertura naturale della roccia, che senz’altro avrà funto da cappa del camino non solo agli originari abitanti del rudere, ma anche a terze persone, dal momento che numerosi rifiuti ammucchiati qua e là, lasciano supporre che queste quattro mura abbiano potuto ospitare un comodissimo bivacco. Tornati all’aperto e usciti da quella specie di muro di cinta che contorna l’abitazione, ci spingiamo ancor più verso il precipizio, ma poi preferiamo risalire per poter trovare un luogo ancor più aperto sullo scenario di Matera, in modo da poterne godere a pieno della sua magnifica visione. Facciamo qualche altro centinaio di metri con la macchina, poi ci rifermiamo. Ci inoltriamo adesso attraverso una bassa sterpaglia, poi a un tratto notiamo con una certa impressione tra l’erba la pelle di una lunga serpe macolata, che ci sgomenta un pochino al pensiero soprattutto di dover fare scoperte ancora più pericolose nel ritrovarci di fronte altri esemplari del genere, magari molto più vitali (ah!, chi ci ricorda questo aggettivo!) e pronti al morso velenoso. Raggiunta una posizione di vero dominio dell’intero panorama, ci sediamo un po’ in estasiata contemplazione tra una foto e l’altra e poi cominciamo a risalire piano piano verso la strada anche per poter trovare il maggior numero di conchiglie fossili, che sembrano popolino in gran quantità l’intera altura. La ricerca è soddisfacentemente fortunata: quattro conchiglie in tutto, grazie soprattutto al contributo del vigile e attento, nonché fortunato, occhio dell’Ughino, che ne ha trovate addirittura 3. Tornati sulla strada, proseguiamo ancora un po’ col 124 per poi soffermarci su un ampio spiazzato situato su un’ancor più elevata sporgenza, sempre più dominante il sottostante abisso. Posteggiamo di nuovo il 124, il Gianni e Alberto si avviano armati fino ai denti di marchingegni fotografici verso il ciglio del baratro pronti a fotografare ulteriori e suggestive sequenze dell’ineguagliabile scenario, ora poi che il sole, riuscendo solo in qualche punto a sfondare la densa cortina di nubi, proietta in modo insuperabile alcuni suoi raggi sulla città, immobile, tetra, quasi dipinta su una tela. Il Gianni ed Alberto sembrano ubriachi dalla scenografia a cui sono di fronte, tanto che, pur di poter riprendere ogni particolare, ogni migliore squarcio, si spingono sempre più vicini al vuoto, che si apre a poche spanne da loro; né la preoccupazione dell’eventuale pericolo li distoglie minimamente. Il buon senso li consiglia però ad un certo punto di accontentarsi di quel poco ma prezioso materiale documentaristico raccolto e così tornano di nuovo al 124, dopo aver commentato con l’Ughino, rimasto nel frattempo un po’ indietro, la presenza sul terreno di residui di fuochi d’artificio sparati in occasione di chissà quale festa popolare. Fatta poi manovra, cominciamo a scendere per la strada che ci ha accompagnato fin quassù lasciando così l’indimenticabile Matera. Sono le 18.40.
Raggiunta la statale, puntiamo verso Castellaneta alla ricerca dell’odierno camping. Il cielo continua ad essere intanto una cappa cupa e minacciosa e la prospettiva che da un momento all’altro si possano aprire le cateratte celesti ci preoccupa un tantino, tanto che qualcuno alita addirittura l’ipotesi di dormire in macchina stanotte, per evitare così di bagnare ancora la tenda ed incontrare nuove difficoltà nel suo giornaliero smontaggio. Speriamo comunque di non dover ricorrere a questa disperatissima possibilità, visto che inoltre verso il mare, lo Ionio, verso il quale siamo diretti, il cielo sembra un po’ più sereno.
Verso le 19.00 entriamo in Puglia e di questo ce ne accorgiamo, oltre che attraverso la carte, anche nel costatare la monotonia delle strade che stiamo percorrendo, così dritte in mezzo al pianeggiante paesaggio del desolato Tavoliere. Il Gianni, di dietro, cerca di sintonizzare la radio su qualche stazione italiana, ma senza alcun successo, nonostante la sterminata pianura che ci circonda e che dovrebbe favorire la trasmissione delle onde. Solo dopo qualche tentativo, tra rumori e scariche varie, cominciamo ad udire un giornale radio in lingua straniera, che, da alcune espressioni usate dallo speaker, non tardiamo a riconoscere di chiara produzione della cinese Radio Albania. Di conseguenza la ricezione viene immediatamente dal tecnico Gianni di tutt’altre convinzioni politiche. Non è comunque una gan perdita neppure per gli altri, dal momento che non ci si annoia davvero a bordo, impegnati tra l’altro come siamo nel parlare di Matera, delle australiane e della sempre più imminente possibilità di fare il bagno: speriamo domani!
Poco dopo le 19.00 ecco raggiungere Castellaneta. E’ questa la città natale di Rodolfo Valentino, a cui la cittadinanza tutta, in segno di gratitudine per quel pizzico di notorietà che la celebrità del divo gli ha trasmesso, ha eretto sulla strada statale, che attraversa la cittadina con un lungo rettilineo, un monumento per niente bello che lo raffigura a vivaci colori. Entrando in Castellaneta, già in provincia di Taranto, la statale è attraversata a sua volta dalla ferrovia, che proprio in quel punto compie una stretta curva prima di entrare in stazione, formando così con le rotaie, razionalmente sistemate a mo’ di curva parabolica, un alto scalino che si presenta all’improvviso e che senza l’ammonitore avviso di vistosi cartelli stradali farebbe saltare balestre e molloni anche alle più dotate fuoristrada. Superato l’inconsueto ostacolo, cominciamo a cercare un bar che esponga la caratteristica insegna gialla raffigurante il disco bucherellato telefonico e, una volta avvistata, facciamo scendere Alberto e il Gianni, mentre l’Ughino resta al volante e va alla ricerca di un buco dove poter infilare il 124. Oggi è infatti il terzo giorno di viaggio e, come da accordi precedentemente presi con i rispettivi familiari, si dimostra d’obbligo la prima telefonata rassicuratrice sull’andamento – per ora senza alcuna insopportabile grinza – del nostro raid. La speranza però di assolvere al più presto possibile questo improrogabile impegno, si dissolve immediatamente allorquando la commessa del bar prescelto ci informa che da qui non esiste la teleselezione con Firenze e che quindi per avere la comunicazione desiderata dovremmo attendere circa un’ora; senz’altro troppo per la nostra tabellina di marcia che prevede per motivi d’ordine pratico di arrivare al camping prima che faccia completamente buio. Rinunciamo quindi per il momento a dare nostre notizie alle rispettive famiglie e così non ci rimane altro che salutare la gentile commessa e tornare al 124, il quale nel frattempo sembra invece essersi improvvisamente volatilizzato; fenomeno questo non eccessivamente probabile stando a ben precise leggi fisiche. Il mistero di fatti si risolve una volta affacciatisi alla più vicina contrada di sinistra, dove solo lì l’Ughino è riuscito a trovare quel succitato buco, che però da come sono andate le cose, ormai non ci serve più. Rimandato così l’appuntamento con la voce di chi è rimasto una volta arrivati in camping, rimane adesso, quale impellente preoccupazione, quella di raggiungere Marina di Castellaneta, dove dopo una più approfondita occhiata sull’apposita cartina, sembra si possa avere asilo per la notte.
Dopo aver staccato un altro buono di 10 litri presso una stazione di rifornimento Agip sempre in Castellaneta, continuiamo attraverso una delle tante strade parallele che portano dritte al mare, mentre sulla nostra destra il sole, ormai libero dalle nuvole che hanno caratterizzato la giornata, scende lentamente verso l’orizzonte ionico diventando sempre più rosso e assomigliante ad un pastoso tuorlo d’uovo.
Dopo aver superato un altro dei tanti e pericolosi incroci trasversali, ci viene il sospetto sull’esattezza della decisione appena presa nel proseguire ancora a dritto e difatti una successiva informazione raccolta presso un giovanotto ci conferma la fondatezza del nostro dubbio, poiché avremmo dovuto imboccare la diramazione a destra dell’incrocio appena erroneamente oltrepassato.
Fatto qualche centinaio di metri nella nuova direzione, avvistiamo in mezzo alla strada uno sporgente pollicione al quale, non ci sono dubbi, si trova attaccato uno speranzoso autostoppista. Esaudiamo prontamente il suo esplicito desiderio, avvertendolo però che lo potremo accompagnare solo per qualche chilometro, diretti come siamo all’ormai prossimo camping locale. E difatti, dopo aver scambiato due o tre parole di convenienza col nuovo e molto provvisorio compagno di viaggio, poco dopo, all’apparire della freccia blu convenzionalmente fregiata da una tenda e da un abete, siamo costretti a lasciarlo di nuovo sulla strada.
I capelli rossi del giovane – che dal suo breve racconto sembra che sia stato appiedato da malfidati amici – scompaiono di lì a poco dal lunotto posteriore lasciando così la nostra attenzione rivolta adesso esclusivamente all’insegna del camping, che non dovrebbe tardare.
Eccola lì sulla destra! Sono le 19.50.
E’ questo l’International Camping, che si presenta ottimamente situato in una vasta e folta pineta. Speriamo che anche l’interno risulti ugualmente ospitale.
Alla direzione scende Alberto che si mette d’accordo per regolare più tardi la consegna delle carte d’identità una volta tornato il responsabile. Abbiamo così il permesso di passare. Imbocchiamo, dopo aver costatato l’impossibilità di trovare un posto nell’affollata ala sinistra, la stradina interna principale accorgendosi subito però di come sia problematica la ricerca di un quadrayino di terra, decidendo, dopo varie congetture, tesi e supposizioni, di piantare alla fine la nostra Canadese proprio nel mezzo di quei quattro pini in formato ridotto, situati nella parte interna del camping e disposti a formare un perfetto quadrilatero, che, volendo, pur ricordando quello di Verona, potrebbe essere pure utilizzato per giocare ai quattro cantoni. La rena, finissima, che costituisce il primo stato di terreno, crea on un primo tempo un po’ di difficoltà per portare vicino alla nostra postazione il 124, ma, dopo un po’ di pazienza, la manovra riesce perfettaente.
Si comincia allora a vuotare il portabagagli e quindi si dà il via alla sistemazione di tutto l’occorrente per la cena e per la notte. Alberto, sentatie le varie richieste, comincia a preparare il the per il Gianni e l?Ughino e un po’ di caffè invece per se stesso.
Poco dopo, quando ormai anche l’ultimo picchetto è stato fissato – per fortuna facilmente stasera, dato il soffice terreno – il tavolino è già apparecchiato e le fumanti bevande sono pronte ad essere consumate. Come ieri sera si ripetono intanto le battute sulla cena del Gianni, che a quest’ora sembra parta puntualmente.
Sulla nostra destra un gruppo di colleghi campeggiatori stanno proprio adesso cominciando a montare una strana tenda esagonale blu, mentre vicino a noi, oltre ad un tendone da cui non si vede anima viva, è posteggiato un pratico furgone Volkswagen di tedeschi dotato di una piccola tenda posta sul tetto del furgone stesso.
Al lume della torcia dell’Ughino – stasera un po’ più vivace grazie alle pile nuove – ingeriamo così qualche biscotto preparandoci poi un paio di fettine di pane spalmate col latte in tubetto, mentre come dessert ripieghiamo ancora su qualche bella feta di cocomero, che per lo meno ha la gradita caratteristica di farci sentire illusoriamente lo stomaco gonfio, benché in pratica non “si sia mangiato un tubo”.
Riordinata un po’ la roba, ci prepariamo quindi per andare a telefonare. Tornati a piedi alla direzione, occupata pacificamente da una decina di ragazzi che hanno improvvisato un’orchestrina, apprendiamo che non è possibile neppure da qui mettersi in contatto con Firenze e che quindi bisogna uscire e rintracciare un motel Esso a qualche chilometro da qui sulla statale. Il Gianni torna allora alla tenda per prendere il 124, mentre l’Ughino e Alberto si informano inoltre che se torniamo in camping dopo le 22.00 la macchina dovremo lasciarla sul piazzale, mentre se non saremo di ritorno entro le 24.00 la dovremo lasciare addirittura sulla strada. Comunque, anche se sono già le 21.20 e le probabilità di farcela sono poche, l’impegno deve essere assolutamente assolto, per cui facciamo buon viso a cattiva sorte ed uaciamo ugualmente. Arrivato il Gianni col 124 lasciamo così il camping percorrendo quindi il viale che porta sulla statale. Al bivio però, vedendo un bar, ci viene voglia, per far prima, di sentire se esiste anche da qui la possibilità di farci sentire dai nostri, ma dopo aver parcheggiato e chiusa ben bene la macchina, ci vien detto che, come al solito, ci vorrebbe un’ora di attesa e che non è possibile neppure aspettare, perché fra poco il locale chiude. Capiamo però l’antifona di questo discorso, avendo difatti subito l’impressione che sia invece piuttosto il proprietario, dotato di ben poca pazienza a rendere impossibile, come dice lui, la comunicazione. Un po’ stizziti sicché dell’ambiguo comportamento dello stesso gestore, torniamo via e, ripresa la macchina, raggiungiamo poco dopo il motel indicatoci, dove, parcheggiato il 124 con molta attenzione per non buttare in terra una vespa seminuova ma mal parcheggiata, entriamo nel bar e, dopo aver prenotato la telefonata, ordiniamo la quotidiana birra. Visto poi che l’attesa sembra debba protrarsi anche qui per circa un’ora, ci mettiamo seduti fuori su alcune seggioline e qui, sorseggiando il fresco boccale di birra, facciamo le quattro serali chiacchiere.
Proprio qui davanti a noi c’è parcheggiata anche una macchina targata Firenze e il fatto ci rallegra. Sarebbe nostra intenzione salutare il nostro ignoto concittadino, ma per ora non c’è stato verso di individuarlo.
Intanto, dopo poco più di mezzora, risuona nel locale il tanto atteso “Firenze in linea!”, che fa scattare Alberto – tocca infatti a lui stasera – in direzione dell’apparecchio telefonico situato in un’attigua saletta, togliendo così a tutti e tre con qualche minuto di conversazione il penoso pensiero.
A questo punto al Motel non abbiamo più nulla da fare. Paghiamo e, ripresa la macchina, torniamo in camping ripercorrendo il buio viale di dianzi e la successiva deviazione.
Le 22.00 sono passate solo da qualche minuto quando ci affacciamo al cancello dell’International Camping, ma ciò nonostante siamo costretti a lasciare il 124 solo nella piazzetta antistante la direzione. Per fortuna ci sono altre macchine… si faranno compagnia!
Per poter sbrigare un po’ di corrispondenza, entriamo adesso nell’attrezzatissimo bar situato su una piattaforma di cemento sopraelevata a sinistra del piazzale entrando in camping. Nella penombra, seduti in gruppo, ritroviamo gli stessi ragazzi canterini di dianzi, che sembra abbiano richiamato gente intorno a loro con arrangiati coretti. Nel bar scegliamo qualche cartolina, poi ci sediamo ad un comodo tavolo rosso e diamo sfogo a quella poca, ma inevitabile, nostalgia di casa scrivendo tra l’altro anche al Prof. Macconi, per il quale però non proviamo il benché minimo senso di lontananza. Il Gianni finisce di aggiornare il diario di bordo e poi, dopo aver dato un’occhiata ad una ragazza seduta dietro di noi con un micio sulle ginocchia (molto carine quelle ginocchia… hmm.. cioè, quel micio, vero!?), affidiamo tutta la posta alla barista con la speranza che arrivi presto a destinazione.
Scesi di nuovo nel piazzale, chiudiamo ben bene il 124 dopo aver preso con noi le patenti e il transistor da utilizzare – quest’ultimo – nel giornaliero intrattenimento danzante di fine giornata; e ci incamminiamo quindi a piedi verso la tenda guidati da una straordinaria luce della torcia dell’Ughino fino a stasera tacciata come inservibile, che ci permette tra l’altro di individuare subito un grosso tubo sporgente e in subdolo agguato sulla stradina interna, facendoci così evitare cadute e improvvisi inciampi.
Riordinato sommariamente il tavolino, prendiamo con tanta fretta d’assalto i servizi, che Alberto e l’Ughino sbagliano ed entrano in quelli per signora. Solo il provvidenziale arrivo di qualche bambina metterà in sospetto i due sprovveduti ragionieri del grossolano errore commesso, riuscendo così ad uscire dall’imbarazzante situazione prim’ancora che disgraziatamente qualche straziante vecchia cicciona, entrando, non si mettesse a stridulare nel vedersi di fronte due uomini seminudi, facendo assumere in tal modo alla nostra serata risvolti spiacevolmente movimentati.
Con le mani linde, l’alito pulito e il sorriso smagliante, entriamo in questo momento in tenda e – come si dice – ci corichiamo. La disposizione dei rispettivi letti, o meglio, dei rispettivi arrangiati giacigli, è la stessa di ieri sera, visto il successo ottenuto la notte scorda da tutt’e tre le parti.
Sono le 23.00. Ascoltando qualche canzone alla radio, ripensiamo alla magnifica giornata trascorsa, poi ci addormentiamo.