12 agosto - Trebisacce - Praia a Mare

Ore 7.00: qualche movimento all’interno della tenda fa presupporre che anche per stanotte l’operazione sonno si stia per concludere. E si ricomincia.
Dopo aver preso d’assalto i servizi, di cui qualcuno terrà a far notare l’assurda scomodità dovuta al particolare tipo di attrezzatura rispondente però a più importanti necessità igieniche, si rinnova il serrato brulichio tra tenda e 124, da cui è facile intuire l’imminente partenza. E difatti, nel giro di circa 40 minuti, quando cioè sul terreno non è rimasto altro che, quale nostra traccia, i fori dei picchetti e la chiazza di brodo sul formicaio dichiarato nottetempo disastrato, siamo di nuovo a bordo per il via.
Col Gianni al volante, attraversiamo lo spiazzatino ancora assorto nel sonno e, dimenticandoci volutamente di esaudire la raccomandazione del cugino Alessandro di svegliare alla nostra partenza il clan di cui fa parte - smemoratezza questa sugeritaci da cauti principi di autoconservazione, onde evitare di farsi tirar dietro pentole, torce elettriche, calzini ancora semisudati e picchetti inutilizzati - usciamo sul lungomare.
Riguadagnata la statale, usciamo da Trebisacce in direzione Sud, riuscendo a tenere una discreta andatura grazie ai lunghi e frequenti rettilinei e alla quasi assenza di traffico già notata anche ieri.
L’itinerario prevederebbe a questo punto di utilizzare una deviazione sulla destra per avvicinarsi alla Sila, ma in questo momento non abbiamo la minima idea di dove potremmo trovarci, cosicché, appena incontrato il successivo incrocio, ci addentriamo, dopo più di un attimo di incertezza per la insufficiente segnaletica, nell’interno calabro con la speranza che sia questa la direzione giusta. Al fine di avere una delucidazione rassicurante in merito, prendiamo al volo un ragazzino in bicicletta fermo presso un bivio per farci indicare da quale parte si possa raggiungere la Sila. Ci vien consigliata la deviazione di sinistra e così, abbandonata la precedente carrozzabile, seguiamo quella indicataci dal nostro informatore di turno, la quale, da una tranquillizzante conferma raccolta successivamente presso un gruppo di muratori, ci sembra quella desiderata.
La strada, per ora in falsopiano, è già diventata tortuosa, ma piuttosto piacevole dal punto di vista paesaggistico costituito com’è da vegetazione di varia natura: da olivi a folte macchie. Tutto ovviamente accentuato nella sua bellezza dalla giornata che si sta prospettando ancora una volta splendida con un cielo azzurro e sgombro di nubi, in cui adesso il sole lentamente sta percorrendo la parte ascensionale del suo quotidiano arco.
Giriamo intanto a Vaccarizzo Albanese, dove decidiamo di fare un primo rifornimento di benzina, in modo da scongiurare il pericolo di ritrovarsi ad un certo punto ridotti sulle erte silane a spingere il 124 o a piantare anzitempo la tenda. La stazione di servizio, sì insomma quella pompa lì sul marciapiede sinistro, è su una ripida stradina resa simpaticamente movimentata da quell’andirivieni di gente tipico dei paesi montani. Tra le varie caratteristiche figure che carosellano in su e in giù abbiamo anzi l’occasione, mentre stiamo ripartendo, di conoscerne una: è un carabiniere, che, affacciatosi al finestrino del Gianni, ci chiede un passaggio. Non è certo ancora il genere di autostoppista che era nei nostri più cauti programmi, ma senza pensarci due volte accettiamo ugualmente. Alberto sicché si stringe di nuovo in intimo contatto con pentole e tegami sul sedile posteriore; il giovane militare sale a bordo; il Gianni appone sul parabrezza il cartellino di "completo" e si riparte.
Il nuovo ospite collabora subito nell’indirizzarci appena lasciato il paese sull’esatta direzione da seguire, dimostrandosi anzi abbastanza simpatico con quel suo largo sorriso incorniciato da un volto piacevolmente roseo anziché no. Quasi subito intessiamo poi un’allegra conversazione senza pretese, ma piuttosto divertente per gli aneddoti di vita paesana connessa alla funzione di tutore dell’ordine che il carabiniere ironicamente ci racconta e facendoci subito tornare alla mente un paio di vecchi film di De Sica.
Una sufficiente conferma di quel caratteristico rispetto e timore nutrito dalla gente semplice per carabinieri e autorità in genere a cui il nostro autostoppista alludeva, la raccogliamo qualche chilometro dopo, quando siamo costretti a fermarci, impossibilitati a proseguire per la pavimentazione in corso di un tratto di strada. Per non perdere tempo difatti il nostro beneamato carabiniere scende di macchina e, con passo solenne e quasi intimidatorio, si avvicina al gruppo di stradini e li mette al corrente della propria fretta e della giustificata intenzione di non voler assistere assolutamente anche alla pavimentazione dei successivi tre chilometri di strada. La precisazione deve aver fatto subito presa su quella povera gente, tanto che, mentre la nostra scorta sta riprendendo posto in macchina, il ritmo di lavoro si accelera rapidamente fin quasi a trasformare la scena in una sequenza da film di Ridolini. In breve così possiamo superare l’imprevisto ostacolo, non mancando comunque di salutare e ringraziare questi scattanti lavoratori.
Ripresa la marcia sempre di più in salita tra curve e tornanti, il discorso cade poi sulla produzione vinicola locale e alla nostra manifesta intenzione di poterla giudicare di persona, il carabiniere si offre di accompagnarci da un contadino di sua conoscenza, produttore appunto di ottimo vino. L’allettante proposta è ben accetta da tutti e tre a cui è tanto gradito stimarsi intenditori di vino, anche se forse la qualifica di avvinazzati sarebbe più appropriata, e così, seguite le indicazioni dell’improvvisata guida enologica, deviamo dopo breve sulla sinistra, fermandosi poi, fatto un centinaio di metri, di fronte al cancello di una fattoria. Entrati nell’erboso cortile, sembra proprio in un primo momento di non aver avuto fortuna, visto che ai richiami del carabiniere, dall’interno dell’abitazione non risponde nessuno. Ma mentre siamo lì un po’ incerti sul da farsi, ecco apparire il proprietario della casa, che, riconosciuto il nostro accompagnatore ed informato sulla ragione della nostra presenza, ci fa strada verso la preziosa cantina. Scendiamo così di qualche metro lungo un viottolo trasformato dal continuo passaggio in una comoda successione di gradini e ci ritroviamo su uno spiazzatino sottostante tra campi variamente coltivati, ma in prevalenza a viti, e il muro della casa colonica dove si apre il grande portone della cantina gelosamente chiusa. All’’interno, in penombra, si scorgono tre o quattro tini di diverse dimensioni dal colore cupo e massicci, che insieme ad altri rudimentali arnesi sparsi qua e là per il locale ci danno la tanto desiderata impressione della genuinità. L’occasione di trasformare detta impressione in certezza ci è offerta subito dal contadino, che, trovato qualche bicchiere, ce lo riempie direttamente da un tino offrendoci così l’assaggio della propria produzione. Il gotto di prova viene preparato anche al carabiniere, il quale però in un primo momento, forse ricordandosi chissà di essere in servizio e quindi in quello stato impossibilitato dal soddisfare tra l’altro esigenze di palato, tituba un po’ nell’aderire all’invito, ma, appena fugato qualche residuo scrupolo di obbedienza al regolamento, lo tracanna in un sorso, facendoci quindi subito afferrare l’unica molto probabile ragione del suo colorito costantemente roseo. Ma del resto in coscienza non sappiamo di certo dargli torto dopo aver gustato questo bicchierotto di vino che è davvero buono. Dalle spiegazioni del contadino risulta che questo sia il frutto della precedente vendemmia e ciò può spiegare quel saporino di uva che ancora trattiene insieme a quel colorino piuttosto chiaro di cui è caratterizzato. Soddisfatti dell’assaggio, procediamo alla richiesta di tre bottiglie che vengono prontamente confezionate usufruendo di bottiglie di acqua minerale e dei relativi tappini usati, che però tornano ad assolvere la propria naturale funzione di ermeticità grazie alla punzonatura fatta con un particolare strumento di ferro. La spesa è di 150 lire a bottiglia ed anche se il prezzo, comprendente però anche il costo del vuoto, è in fondo abbastanza caro ci consola il fatto di avere raccapezzato finalmente un souvenir di cui sappiamo con certezza la originale provenienza calabra. Ringraziato e salutato il contadino, risaliamo sulla strada, dove il carabiniere, dimostrandosi disposto a farsi a piedi quel breve tratto di strada che ancora lo separa della sua destinazione, ci dispensa dall’accompagnarlo oltre. Sicché, dal momento che la nostra direzione è dalla parte opposta, non vediamo ragione di insistere, per cui, fatta manovra usufruendo a parziale compenso della ridotta carreggiata della stradina del cancello aperto, torniamo sulla strada principale e, con tre litri di vino in più, un carabiniere in meno e un bicchier di vino a testa a stomaco vuoto - dei cui effetti ne potremo riparlare più in qua - riprendiamo l’ascesa verso la Sila.
La vegetazione, dopo essere stata fin ad ora piuttosto bassa e caratterizzata da sparsi appezzamenti di terreno adibiti alla coltivazione, come abbiamo visto poco prima prendendo il vino, comincia adesso ad assumere già le caratteristiche di mezza montagna con castagni, macchie ed altri alberi ad alto fusto.
Uscendo in questo momento da una curva, ci dà intanto nell’occhio sul ciglio sinistro della strada un quadretto molto simpatico animato da una parte da un gruppo di donne dal tipico vestito nero sedute insieme ad un vecchio nei pressi di una bassa costruzione dalla non ben determinata funzione, e dall’altra da un mulo, che, legato ad un palo con aria solitamente imbambolata, offre al Gianni l’occasione di trarre un ulteriore spunto per il diario fotografico suo e dell’Ughino.
Ripreso il cammino, procediamo sempre più alla volta di Acri, che raggiungiamo alle 10.00. Il paese ci appare arroccato laggiù in fondo sulle pareti opposte della vallata che stiamo percorrendo e questa caratteristica disposizione viene avvertita ancora di più una volta entrati in paese a causa del continuo susseguirsi di saliscendi più o meno ripidi.
Considerata 1’ora, ideale per uno spuntino di metà mattina, decidiamo di fermarsi provvisoriamente lo stomaco con una pizza, cominciando così a percorrere in lungo e in largo Acri alla ricerca per lo meno di un fornaio, visto che la pretesa di trovarvi una rosticceria o una tavola calda è, pur senza denigrare l’organizzazione del piccolo centro montano, abbastanza irragionevole. Giunti così il più vicino possibile alla parte più attrezzata del paese, posteggiamo il 124 su un lato di una di quelle solite stradine in salita e incarichiamo 1’Ughino di effettuare la perlustrazione di tutti i fornai nel raggio di qualche decina di metri per stabilire se anche qui è gradita ogni tanto una fetta di pizza.
Alberto e il Gianni ingannano intanto l’attesa osservando le vetrine dei negozi, notando pure l’esistenza di un fotografo di recente apertura che capita proprio ad hoc per effettuare un salutare rifornimento di rullini in previsione dei sette giorni e mezzo ancora da vivere e quindi da fotografare.
Ecco tornare nel frattempo abbastanza desolato l’Ughino, che ci comunica di non aver avuto affatto fortuna nello scovare la preventivata pizza. Pazienza.
Dopo essersi accorti che il fotografo ha rifilato al Gianni invece delle richieste pellicole a colori due rullini in bianco e nero, che ora è andato prontamente a farsi sostituire, ripartiamo e, avuta qualche informazione, riusciamo nell’intrico di stradicciole a raggiungere l’ufficio postale per poter finalmente spedire la corrispondenza scritta ieri sera.
La posta si trova proprio al culmine di una di quelle erte e, dal momento che queste non assomigliano quasi mai di natura alle autostrade per le dimensioni fortemente ridotte a causa anche di numerose auto in sosta, oltre che per l’assoluta mancanza di caselli e di svincoli sopraelevati, che - a meno che non ci siano sfuggiti; ma è difficile - non ci sembra di aver notato; il parcheggio si rivela subito alquanto problematico. Giunge provvidenziale un buco sulla sinistra poco dopo lo scollinamento, che subito il Gianni riesce ad accaparrarsi, ma certo non troppo decentemente, per cui è costretto a rimanere al volante dopo aver fatto scendere Alberto e l’Ughino, in modo da poter far fronte ad un eventuale spostamento nel caso in cui qualche mezzo voluminoso fosse anche lui di transito da queste parti.
Entrati nell’ufficio postale, Alberto e l’Ughino sono costretti a rispettare una consistente coda, assistendo anche in un secondo tempo ad un turbolento diverbio tra l’impiegato ed un isterico cliente, che, minacciando di spaccare ogni cosa, poco ci manca che non scavalchi il bancone e fronteggi a sonore manate il malcapitato sportellista. Con gli animi intanto ancora caldi per l’accaduto, riescono però alla fine a consegnare gli espressi ed uscire poco dopo, senza però fare a meno di commentare l’appestante nauseabondo fetore di pecora e di capra di cui tutto l’ambiente risulta impregnato.
Tornati al 124. si riparte scendendo per la stradina e ingarbugliandosi poi lungo altre contrade e viuzze che ci portano alla fine presso un distributore di benzina, presso il quale cogliamo l’occasione per farci ancora dieci litri. Mentre ci mettono a punto il livello del carburante, adocchiamo là in fondo un fornaio, ma ormai la voglia di pizza ci è passata e così rinunciamo allo spuntino evitando molto probabilmente anche di farci ripetere di nuovo che siamo pazzi a strapazzarsi per poter raccapezzare quel pezzo di pizza che da un pezzo stiamo cercando, visto che non ce n’è neppure puzzolente di pozzo in tutto il paese.
Rintrufolatici di nuovo in paese ne usciamo poi, dopo le consuete informazioni, nella direzione del Lago di Cecita, nostra prossima tappa di interesse paesaggistico. La strada all’uscita di Acri diventa per un tratto in discesa permettendo di godere il curioso ammasso di case del paese, che ci rimane adesso sulla destra trovandoci dalla parte opposta della valle per cui siamo arrivati. Il paesaggio a sua volta non si differenzia ancora nettamente dal precedente, come del resto la strada che continua dannatamente a rifilarci una dietro l’altra curve e controcurve.
Dopo essere stati trattenuti per un po’ da un camion, superato poi però in perfetto stile con l’avvento di un provvidenziale rettifilo, ecco presentarsi di nuovo il conosciuto dilemma che sorge puntualmente al periodico avvicinarsi di bivi e deviazioni. Questa volta, dopo il consueto attimo di indecisione e di consultazione fra noi, optiamo per la ramificazione di destra, se non altro per il semplice fatto che qualche abitazione di lì a 50 metri ci fa sperare di poter raccogliere qualche informazione che ci indirizzi con più sicurezza verso la meta programmata. Sulla soglia di una di queste casette ad un piano e, anche se modeste, niente male, ecco difatti una donnina in tenuta da lavoro - ammesso che esista una sostanziale differenza tra l’uniforme di fatica e quella di riposo -, la quale, venuta a conoscenza del nostro desiderato itinerario, ci avverte, cominciando a sciorinare una massa incredibile di parole, che il Lago di Cecita è dalla parte opposta e che quindi dovremmo ritornare ad Acri per poi riuscirne in altra più corretta direzione. Poi, mentre allibiti dalla costatazione della nostra informatrice cerchiamo, tutti sotto sforzo, di effettuare un rapido identikit del precedente informatore a quanto pare fallace, in modo da additarlo, se lo dovessimo incontrare di nuovo, al mortificante biasimo della gente, ecco che la donnina, continuando a vociare tranquillamente, chiama all’interno dell’abitazione altre due simili donne, che, gesticolando e sbraitando anche loro a più non posso, commentano a non finire il nostro grosso errore, meravigliandosi per altro che qualcuno ci abbia potuto indirizzare da questa parte. La conversazione, o meglio il rumoroso monologo da parte delle indigene, si protrarrebbe, ne siamo certi, per ore ed ore, se, dopo essersi assicurati di nuovo di dover tornare ad Acri, non avessimo ad un certo punto salutato le tre villane, fatto manovra nello stretto spiazzato ed imboccato di nuovo ma in senso inverso la strada di dianzi, mentre dal lunotto posteriore è ancora possibile osservare le tre blateranti informatrici tuttora impegnate in movimentati discorsi e considerazioni.
A noi ci rimane invece l’unica e purtroppo amare costatazione di aver perduto del tempo prezioso e di aver fatto tra andata e ritorno una ventina di chilometri fra i più inutili finora percorsi. D’altra parte, mentre ci stiamo riavvicinando ad Acri, non ci esimiamo dal ringraziare il Cielo di aver trovato quel bivio che ci ha messo la pulce nell’orecchio e quelle anche forse troppo socievoli contadine a cui però siamo forse riusciti involontariamente a far scambiare qualche parola - si fa per dire - con qualcuno che non fosse la vicina di casa; se ciò non fosse stato infatti avremmo continuato per chissà quanti chilometri ancora, costretti magari successivamente a rinunciare a Cecita e Sila per l’ormai troppo tempo perduto.
Ed ecco intanto riapparire Acri e riperdersi ancora fra le sue stradine, da cui riusciamo adesso ad imboccare tra informazioni e conferme - onde evitare di essere presi di nuovo per il di dietro - la strada che, speriamo, dovrebbe portare a questo benedetto lago.
Lasciando Acri, la strada si fa sempre più in salita compiendo ad un certo punto un ampio tornante che sovrasta di qualche decina di metri i tetti del paese. Frattanto cominciano a dare nell’occhio segherie e depositi di legname, che costituiscono indiscutibili indizi dell’ormai prossima Sila, immensa miniera legnosa. La strada continua ad essere poi una serie interminabile di curve tra fitte ali di castagni portandoci sempre di più su.
Secondo nostri approssimatissimi calcoli, adesso ci dovremmo trovare abbastanza vicini al Lago di Cecita, per cui ci aspettiamo di vederlo apparire da un momento all’altro; ma percorsi ancora altri chilometri ne dobbiamo scoprire ancora l’ombra. Un po’ preoccupati e spazientiti, rinnoviamo allora all’approssimarsi di qualche bivio o anche di qualche leggera deviazione della strada la rituale richiesta d’informazioni circa la nostra posizione, sempre che comunque si abbia la fortuna di incontrare nel momento del bisogno quei rari e solitari viandanti che a piedi vediamo ogni tanto sui lati della strada. La funzione di intervistatore à affidata ad Alberto, che però tutte le volte che mette al corrente l’informatore di turno della nostra direzione gli scappa sempre incredibilmente la parolina chiave dell’intero discorso - Cecita - ricorrendo ogni volta, dopo imbarazzati tentativi mnemonici, al suggerimento dell’Ughino e del Gianni piuttosto divertiti dello strano fenomeno.
Poi alla fine, dopo lo scambio del volante tra l’Ughino e il Gianni, ecco apparire - sarà mezzogiorno - il tanto sospirato specchio d’acqua, ora annunciato con entusiasmo da Alberto, finalmente soddisfatto di essere riuscito a ricordarsi, ma ahimè quando ormai ce n’è ben poco bisogno, il nome di Cecita.
Il lago si stende in un’ampia vallata contornata da un lato da alti e folti abeti che formano una fitta foresta attraverso cui serpeggia la statale che stiamo percorrendo. Da qui è notevole la visione del lago, che appare immobile e baciato dal sole che filtra attraverso i contrastanti tronchi scuri degli abeti, che separano per qualche decina di metri la riva dalla sede stradale. La presenza di numerose persone e di una lunga coda di auto in sosta ci fanno dedurre che il luogo abbia una certa rinomanza turistica tanto più che ne scopriamo una discreta organizzazione leggendo i numerosi cartelli indicatori, fra i quali ci colpisce quello che reclamizza una fiera di artigianato locale - chissà forse come quella di Alberobello -, allestita di qui a pochi chilometri.
Decidiamo di farci una capatina e così imboccate la consigliata deviazione di sinistra, percorriamo una larga e comoda strada, che poco dopo abbandoniamo per immetterci, sempre guidati da un’adeguata segnaletica, in una seconda carrozzabile laterale, esattamente sulla destra, da percorrersi stavolta però con una certa prudenza per il fondo privo di asfalto e per le ridotte dimensioni che permettono solo un difficoltoso transito incrociato dei veicoli. Dopo qualche centinaio di metri, giungiamo su uno spiazzato adibito a parcheggio, dove, dopo aver cercato una migliore posizione di sosta per evitare di impedire l’uscita delle altre macchine, lasciamo il 124 sulla destra dell’ingresso e, con al collo i fedeli marchingegni fotografici, usciamo dallo spiazzato attraverso il cancellino che rifinisce lo steccato di cui è interamente recinto. Sulla sinistra si apre una stradina che trascuriamo, mentre sulla destra, ad una decina di metri, è situata una costruzione in legno, dove salvo errori ed omissioni dovrebbe essere allogata la fiera. Nel raggiungerla, notiamo alla nostra sinistra un prato recinto destinato ad ospitare un camping montanb in piena funzione come ci dimostrano le numerose tende qua e là piantate e il considerevole numero di campeggiatori ~mbulanti su e giù per la stradina.
Ed eccoci arrivati intanto alla caratteristica casetta in legno, che per la verità giudichiamo però subito abbastanza piccola per poter ospitare quella fiera dell’artigianato che ci avevamo immaginato di chissà quale imponenza e vastità di assortimento a causa dei numerosi cartelli visti in precedenza. Sull’entrata, oltre a vetrinette appese alle pareti esterne e contenenti aggeggini di vario genere, si possono osservare vasellami, botticine per vino, strumenti diversi sempre di legno e anche cassette piene di piccole caciotte dal colore scuro e molto probabilmente di sapore piccante, che quasi certamente costituiscono l’elemento più locale e genuino di tutto ciò che si vuole rappresentare nell’allestita mostra.
Penetrati all’interno, una stanza di ridotte dimensione, ci ritroviamo fitti come sardine tra altri visitatori e fra numerosi tavolini e scaffali su cui sono stati disposti una miriade di oggetti di varia natura e significato, che per la verità comunque, potranno essere anche di piacevole aspetto, ma in fondo non è che meritano tutta l’attenzione che però generalmente vien loro offerta. Ci sono pupazzi di coccio o di pezza, maschere, pugnali, temperini e stiletti, portapenne o addirittura libri di sughero e poi borse, scialli e chi più ne ha più ne metta. Il tutto risulta insomma un gran bailamme e l’unica cosa che semmai fra tutto ci attira son quelle caciotte là fuori, di cui sarebbe molto interessante portarne un paio a casa, se non fosse per la quasi certa possibilità di dar vita nel frattempo ad una ben nutrita e profumata colonia di vermi.
In una stanza attigua trova posto pure un bar, che però può anche essere scambiato senza vergogna per una pizzicheria dai numerosi salumi appesi qua e là pronti a stuzzicare il languorino dei più golosi turisti.
Tornati a1l’aperto, diamo un’ulteriore occhiata alla merce esposta presso l’ingresso, poi ci incamminiamo di nuovo verso il 124. Sulla sinistra, vicino allo steccato di cinta, tre o quattro panchine inviterebbero ad una pacifica sosta all’ombra di questi slanciati abeti, ma la tabellina di marcia ci costringe a proseguire anche perchè oggi è in programma pranzare a ristorante.
Fatta manovra sicché, scendiamo di nuovo lungo la stradina risbucando sulla statale che la carta numera col 282, decidendo quindi, dopo aver interpretato i cartelli indicatori, di piegare a destra e di rinunciare così al lago. Ma dopo un centinaio di metri, il detto secondo cui chi lascia la strada vecchia per la nuova non sa mai, forse per esigenze di rima, dove si ritrova, ci consiglia di tornare indietro e di continuare per la strada da cui siamo arrivati al lago. Dopo essersi fermati su una curva per dare modo al Gianni di fotografare gli eleganti e dritti abeti, ci immettiamo sulla litoranea, mentre, dando un’occhiata all’orologio, son le 12.30, cominciamo a fare un pensierino al pranzo.
Incrociamo intanto un gruppo di giovani a piedi in piena azione nella loro escursione, tra i cui volti però, dopo un’attenta indagine, non riusciamo ad individuare pezzi di rilevante pregevolezza tra le fila femminili. Superate alcune altre curve, imbocchiamo poi un lungo ponte sovrastante un braccio laterale del lago, da cui lo spettacolo è ancor più entusiasmante: il sole inargenta infatti le increspature dell’acqua, che risulta poi incorniciata dalla fitta e costante schiera di immobili abeti. E’ d’uopo la relativa foto, che stavolta è il Gianni a collezionare affacciandosi al parapetto di sinistra, mentre alcune altre persone sostano sul ponte colpite anche loro dall’insolita veduta. Costeggiamo per qualche altro chilometro il Cecita Lake, per la verità piuttosto ospitale, impiegando poi una decina di minuti per raggiungere Camigliatello Silano, in cui contiamo di trovare un ristorante abbastanza decente, dal momento che, come già accennato, è prevista per oggi una diretta esperienza con l’arte culinaria locale - la prima del viaggio -, che entusiasma indicibilmente soprattutto Alberto, dispensato così per l’odierno pranzo da ingrullimenti vari tra fornellini troppo suscettibili ai colpi di vento e litri d’acqua troppo freddi per una rapida ebollizione.
La statale, attraversando in salita il paesino, presenta ai lati per qualche centinaio di metri diversi negozi, molti dei quali rappresentano gli ultimi ricettacoli dell’artigianato locale. Sulla sinistra c’è anche un distributore dell’Agip, che prendiamo subito al volo per il consueto rifornimento. Dopo di che posteggiamo sullo stesso lato il 124 e diamo un’occhiata alle vetrine più vicine rimanendo da prima un po’ incerti sul da farsi, per poi però preferire pranzare subito piuttosto che mettersi a robistare tra mille e mille aggeggi e souvenirs nella speranza di trovarne qualcuno che possa accontentare fidanzate, sorelle e uggiosi parenti.
Presso il distributore ci sarebbe un ristorante, ma il suo aspetto poco decente ci fa rinunciare ad entrarvi per preferirne invece un altro, quello là sul lato opposto della strada e ad una decina di metri più su, che si trova proprio sull’angolo della successiva contrada. Rivestita in legno, la costruzione si presenta piuttosto caratteristica anche per una specie di veranda che si affaccia sulla statale nel cui interno però possiamo costatare subito, passandoci davanti, un grande affollamento, che, anche se ci fa correre il rischio di trovare solo posti in piedi e di esser costretti magari a sedersi sulle grinocchia di qualche paffuta vecchiaccia, ci fa sperare d’altra parte di aver avuto fortuna nell’aver trovato una buona e riconosciuta cucina.
Svoltato l’angolo, ecco l’ingresso. Il cameriere che ci riceve ci mette al corrente della situazione di completo vigente all’interno indicandoci quindi, quale unica possibilità, esclusa quella di aspettare, di occupare, finché siamo ancora in tempo, gli ultimi tavolini ancora stranamente liberi sistemati lì davanti all’entrata e all’interno di un recinto di piante che ci separa dal marciapiede. Rapida riflessione individuale prima, collettiva poi, e presa di posizione quindi attorno all’odierno desco in speranzosa attesa di poter finalmente soddisfare le rispettive esigenze buongustaie.
Davanti e dietro di noi c’è gente che già pasteggia e l’osservazione continuata di quel ritmico movimento delle loro mascelle non costituisce altro che un masochista e impietoso stimolo delle nostre ghiandole salivarie che stanno inondando sempre più le ormai da troppo tempo inoperose ganasce. Per distrarsi un pochino usufruiamo alla spicciolata dei servizi del ristorante: sì insomma di quel bugigattolo a forma tetragonale di incredibili ridotte dimensioni situato lì a sinistra entrando sulle scale che portano giù alle cucine. Commentiamo l’angustia della strana toilette con l’eventuale ipotesi, per altro subito smentita, che il locale si possa ispirare alla casetta dei sette nani, cominciamo a cercar di richiamare l’attenzione dell’unico cameriere vertiginosamente impegnato in uno stretto slalom tra tavoli e sedie, ricorrendo, in mancanza di collaudati specchietti da richiamo o di allettanti registrazioni del canto delle sirene, ai più tradizionali gesticolamenti manuali.
Solo però dopo una buona decina di minuti di attesa, in cui abbiamo occasione di essere pure passati avanti da altri turisti - e il fatto stava per far prevalere quella mezza intenzione che avevamo, ormai scocciati, di andarcene via - ecco riuscire a concentrare finalmente su di noi l’attenzione del cameriere, che, dopo aver meticolosamente costatato il nostro già avanzato stato di cecità dovuta alla fame, ci presenta immediatamente la carta tra le cui righe cominciamo subito a cercar di individuare le più genuine e locali specialità del luogo. Cosicché, attratti dal mai sentito nome maltagliati, scoperto tra le minestre, decidiamo di esordire nella gastronomia locale ordinandone due porzioni al sugo per 1’Ughino e per il Gianni ed una allo stufato per il più esigente Alberto. Richiamato il saltuario cameriere, già prontamente accorso nel frattempo presso altri tavoli, gli esplichiamo sicché le nostre scelte in merito al primo, non dimenticandoci per altro di chiedere che il pranzo possa essere innaffiato con vino rosso calabro.
Quasi subito eccoci servire una bottiglia di Cirò - la stessa qualità di vino acquistata ieri dall’Ughino e dal Gianni anche se in differente confezione - che assaggiamo subito nel tentativo anche di rendere meno lunga questa esagerata ed esasperante attesa.
Poi, quando ormai le nostre bocche, prosciugate a dovere della precedente acquolina, si fanno sempre più ruvide a forza di biascicare il nulla; ecco finalmente le agognate maltagliati, che con nostra somma meraviglia scopriamo di forma tanto familiare, quasi da poterle tranquillamente identificare con le normali penne chissà già quante volte mangiate senza il bisogno di fare tanti e tanti chilometri. Anche per quanto riguarda il condimento non possiamo certo considerarci soddisfatti: delusi gli uni dalla banalità del sugo, meravigliato dall’irriconoscibile richiesto stufato l’altro, che per niente entusiasta del primo prende al volo il cameriere durante uno dei suoi soliti veloci passaggi e cerca di farsi spiegare il motivo per cui si voglia chiamare stufato quel che tradizionalmente non è; al che il cameriere con ingiustificato atteggiamento di seccato o, se vogliamo, di stufato, non sente discorsi e per Alberto non rimane anzi che prendersi pure dell’incompetente, qualifica questa, specie per lui, di altissima onta. L’eventualità che ci scappi pure il duello viene accantonata dal provvidenziale passaggio di una giovane cliente del locale, di cui ci colpisce soprattutto (e come farne a meno!) il succinto e trasparente abbigliamento.
Tornati con gli occhi nel piatto, terminiamo in qualche modo le non pur immangiabili maltagliati, a cui però manca quell’esclusività del luogo che avevamo sperato di trovarvi e che invece non riscontrando ci aveva lì per lì delusi.
Archiviato il primo e preso in considerazione il secondo, l’Ughino e il Gianni, scoraggiati dalla poco convincente esperienza, decidono di rinunciare ad ogni velleità buongustaia, ripiegando sul sicuro e ordinando cioè una trota alla livornese, per la quale semmai rimane soltanto la curiosità di sentire se vien cucinata come a casa nostra. D’altra parte Alberto non si abbassa a gettare di già la spugna, ordinando così una bistecca alla silana in cui sono riposte tutte le speranze di riabilitare questo pranzo non soddisfacentemente iniziato.
Trascorre ancora una decina di minuti, poi, dopo esserci soffermati stavolta ad osservare per la centesima volta la fontana che è lì sull’angolo e la caratteristica rivestitura in scorza di legno del locale, ecco il secondo. la bistecca alla silana, sì insomma quella braciola con quella fetta di formaggio fuso sopra, si rivela al palato del nuovamente deluso Alberto ancor più insignificante delle precedenti penne, mentre invece la trota alla livornese risulta a detta di chi l’ha ordinata piuttosto saporita e ben cucinata.
Interessante appare per altro la lezione dell’Ughino sul come degustare appieno il pesce, lezione a cui il Gianni, semiprofano com’è in materia, protende ogni orecchio. Come contorno semmai abbiamo una peperonata servita in porzioni singole piuttosto abbondanti e cipolla condite con insalate e pomodori.
Poi, isolata un’ultima noiosa lisca da una parte e ripulito ben bene il piattino del contorno dall’altra, ecco ripassare il cameriere per l’ultima ordinazione: il formaggio. Presa conoscenza delle varie specie in dotazione al ristorante, scegliamo di comune accordo il caciocavallo, che ci viene servito in discrete porzioni che concludono abbastanza decentemente questo pranzo che tutto sommato comunque non può essere dichiarato negativo in tutti i sensi. Neppure diciamo nel prezzo, visto che il conto, che in questo momento ci ha portato il cameriere - stavolta, chissà perchè?, più celere del solito - può essere più che soddisfacente.
Alleggeritici del dovuto, ci alziamo finalmente e, costatato il fatto di averci messo quasi due ore per mangiare - peggio che negli altri giorni -, ci incamminiamo in giù per la strada entrando poi in quel negozio adocchiato dianzi di artigianato tacciato per locale,- in cui difatti ritroviamo tanti oggettini e souvenir già incontrati ad Alberobello. Chissà come mai? Forse è proprio vero che tutto il mondo è paese. Tanto per raccattare qualcosa anche quassù acquistiamo ancora un paio di gingilli per uno, di poco conto s’intende, visto che la merce migliore - la più originale e interessante cioè come scialli, borse o quei campanacci e altri oggetti in ferro battuto attaccati lì sull’ingresso - ha un prezzo tutt’altro che insipido.
Col nuovo sacchettino di regali torniamo al 124 e ci ricollochiamo ai posti di comando con l’Ughino al volante. Alberto a fianco e il Gianni dietro, intento in questo momento come gli altri a scrivere qualche cartolina pure da quassù. Ed ecco dopo breve finalmente il via.
Sono ormai le 15.00 e ci rimangono ancora circa 180 chilometri da percorrere per raggiungere Praia a Mare, prossima tappa in cui avremo pure modo di riposarci un pochino domani e dopo domani della galoppata finora sostenuta.
Lasciato Camigliatello, ci inoltriamo di nuovo nella fitta foresta silana commentando tra l’altro, tra una sgassata digerente e l’altra, il compleanno del Gianni ricorrente proprio oggi e per il quale gli altri, dimostrando una gentilezza ed una delicatezza squisita, prendono l’iniziativa di bagnare i 19 anni del più piccino dell’equipaggio addirittura con lo spumante. Decidiamo perciò, visto che la nostra cantina sociale è per ore limitata a qualche bottiglia di vino, di ricorrere a qualche locale che potremo trovare cammin facendo.
Dopo alcuni chilometri ecco difatti avvistarne uno sulla destra ad un paio di metri sopra la strada che proprio in questo punto, sempre immersa tra gli altissimi abeti incontrastati protagonisti di una stupenda coreografia, compie un ampio tornante. Posteggiato il 124 su uno spiazzato sottostante, raggiungiamo attraverso alcuni scalini la terrazza prospiciente la costruzione, la quale ad occhio e croce dovrebbe essere un ristorante se non, dalle dimensioni, addirittura un albergo. Sulla nostra destra un divisorio separa il locale da un’adiacente abitazione privata - così per lo meno sembra -, dal cui antistante piazzale in cemento una donnina intenta a far pulizie, vedendoci un po’ perplessi nel non riuscire ad individuare un accessibile ingresso al locale, ci illumina comunicandoci che l’albergo, in attuale restauro, non prevede la sua riapertura se non fra qualche mese. Peccato. Ci è andata buca. La bevuta comunque è soltanto rimandata a stasera una volta giunti a Praia.
Tornati al 124 e fatta manovra, ci reimmettiamo sulla strada e, percorsi pochi altri chilometri dopo essere usciti dall’imponente foresta di abeti, raggiungiamo il passo del Montescuro, la cui ragguardevole altitudine di circa 1630 metri sul livello del mare è immediatamente evidenziata da un leggero strato nebbioso che per una decina di minuti ci dà la sensazione che il tempo si sia improvvisamente rovinato.
Scollinati rapidamente sull’altro versante, prendiamo da questo momento a discendere lungo le rampe della Sila che alla fine laggiù in fondo portano a Cosenza. Sono passate da poco le 15.30 e quindi tutto sommato ci sembra di essere in perfetto orario con la tabellina di marcia.
Le curve intanto, che il tracciato della statale ci somministra ancora in considerevole numero, mettono in crisi dopo qualche chilometro, forse anche per l’abbondante mangiata, lo stomaco del Gianni, il quale per evitare di peggiorare la situazione trovandosi magari costretto a dover alla fine sostenere il fastidio di fare i gattini, chiede ed ottiene da Alberto di poter passare davanti con la speranza che la teoria secondo cui l’avantreno provochi di meno il mal d’auto abbia una qualche fondatezza. Fermati così un attimo sul ciglio, operiamo un rapido scambio riprendendo poi immediatamente la marcia.
La strada, piuttosto uniforme e non eccessivamente interessante, presenta lungo le fiancate dei rilievi da cui stiamo scendendo una vegetazione non tanto alta in mezzo alla quale possiamo distintamente seguire il percorso già coperto e quello ancora da macinare grazie agli ampi tornanti che spazzando in lungo e in largo il versante, calano pian piano a valle.
In 124 regna intanto un’atmosfera di tutto riposo: viene scambiata solo qualche parola e, dopo pochi chilometri, limitatamente al Gianni e all’Ughino, visto che Alberto, spaparanzato sul sedile posteriore, si è nel frattempo placidamente addormentato, Attraversiamo così senza altri spunti di cronaca qualche paesotto e quindi entriamo in Cosenza, dove continua ad essere piuttosto caldo con un sole sempre in primo piano in un cielo azzurrissimo.
Il Gianni comincia allora a sfogliare la guida decidendo insieme all’Ughino di dare un’occhiata ad uno dei maggiori richiami di carattere storico e artistico della città - così per lo meno ci dà ad intendere questo libro - vale a dire la chiesa di S. Francesco da Paola. Individuatala subito, facilitati in questo dal fatto che si trova sulla strada d’ingresso in città, posteggiamo il 124 sul prospiciente piazzale col muso rivolto proprio di fronte al portone. Alberto dorme ancora saporitamente, cosicché, dopo averne costatato la sua decisa intenzione di continuare imperterrito nella propria siesta ed aver considerato anche che della chiesa gliene sarebbe importato relativamente, l’Ughino e il Gianni scendono di macchina in punta di piedi e penetrano all’interno della basilica. Piuttosto grande e con numerose navate, la chiesa si presenta alquanto buia e, forse a causa della incelabile profanità in materia di chi vi parla, anche abbastanza spoglia di elementi di interesse artistico. Una chiesa più che normale insomma. Tanto che il Gianni, vista l’incapacità di scovarvi qualcosa di particolare, esce un attimo di chiesa per munirsi della guida rimasta in 124, non riuscendo però neppure col relativo trafiletto sotto gli occhi ad individuare nel tempio qualcosa di significativo.
Di nuovo all’aperto e ripreso posto in macchina, siamo accolti, e c’era d’aspettarselo, dal classico "dove siamo?" di chi ha perso, come è accaduto al nostro Alberto che sembra si sia addormentato quasi subito dopo lo scambio di posto col Gianni, di chi ha perso dicevo la cognizione del tempo e dello spazio in preda ad improvvisa sonnolenza.
Si riparte; percorso un tratto di strada lungo la fiancata sinistra della chiesa appena visitata, attraversiamo quindi il Busento usufruendo dell’apposito ponte sulla sinistra. Ci ritroviamo così nel centro di Cosenza, città piuttosto moderna con numerose e belle costruzioni ed ampie strade attraverso cui, ausiliati dai provvidenziali segnali stradali, raggiungiamo abbastanza facilmente la periferia opposta imboccando poi un lungo viale. Scrutando la carta abbiamo però l’impressione di doverlo abbandonare di lì a momenti per proseguire verso ovest in direzione di Paola. Per maggiore tranquillità troviamo però intelligente raccogliere una rassicurante informazione affiancandoci un momento sulla destra, anzi entrando addirittura dentro uno spiazzatino, e interpellando un signore, uno dei pochi visti su questo viale, che conferma la nostra supposizione.
Ed ecco difatti, dopo tre o quattro chilometri, il desiderato incrocio.
La nuova strada è molto ampia e permette perciò di prender subito velocità all’Ughino, che però viene improvvisamente bloccato da Alberto, che, avvistata sulla destra una di quelle streghe pseudo fattucchiere dal largo credito quaggiù, propone, a soddisfazione di una certa curiosità, di vedere un po’ più da vicino questo strano esemplare che or ora ci è capitato sottocchio. Nonostante la pronta frenata dell’Ughino, ci ritroviamo però ad una cinquantina di metri dall’attrazione di turno per cui, dopo aver escluso la possibilità di farla in retromarcia per motivi di sicurezza, compiamo una O sulla strada ritrovandoci così sullo spiazzato dove il caratteristico personaggio ha allestito una sorta di spettacolino ad uso e consumo di un gruppetto di donne e bambini e senz’altro anche dei più curiosi ed attenti turisti di passaggio, Avvicinatisi un po’ di più e fermato il 124 a pochi passi, ci accorgiamo però che la presunta maga non è altro che un barbuto e peloso omino, che, vestito con variopinti e assurdi abiti femminili, intrattiene lo sparuto pubblico presente in disordinati balletti accompagnati da una specie di organino con tutt’altro che serie intenzioni di produrre malie e incantesimi vari per la gioia degli astanti. Sguainate in un attimo le macchine fotografiche, 1’omino, accortosi del nostro interesse per la sua divertente messa in scena, si mette nelle più ridicole pose, mentre in 124 tra un click e l’altro vengono freneticamente scambiati tra il Gianni ed Alberto stranissime combinazioni di numeri per una migliore esposizione e messa e fuoco.
Congedatici quindi con un’offerta dallo strano personaggio in sottana, calzettoni, reggiseno e cappellino, riprendiamo la statale che per la cronaca porta il numero 107.
Dopo un tratto in falsopiano, ecco che la strada comincia ad impennarsi tra due ali di castagni, che, precludendoci a tratti sul lato destra ogni possibilità di spaziare lungo il sottostante panorama, ci costringe a posare ritmicamente lo sguardo ora sul nastro d’asfalto, ora sulla macchina che ci précede, se non ad imbambolarci finendo per guardare fissamente il rapido succedersi ai lati di piante, alberi e siepi, che la velocità trasforma in una continua e sfumata striscia verde.
Ad un certo punto poi durante la ipnotica alternata osservazione di questi soggetti, qualcuno si accorge che dalla parte posteriore di quel milleccinque Fiat blu che ci precede fuoriesce in abbondanza del liquido, per cui, presentendo qualcosa di grave, l’Ughino si attacca al clacson richiamando così 1’attenzione dell’autista, che difatti poco dopo, in seguito anche a ripetute segnalazioni da parte nostra, si ferma sul ciglio della strada. Ci blocchiamo anche noi, mentre gli occupanti del milleccinque, una coppia di sposi ormai irrimediabilmente in là con l’età, scendono di macchine per vedere a cosa è dovuto il nostro giustificato schiamazzo. Scesi anche noi di 124 per apportare il nostro eventuale aiuto, offriamo la nostra deposizione in merito, venendo così insieme a loro a concludere, dopo che l’interessato ha dato un’occhiata nel piccolo vano laterale in cui alloggia la bocca del serbatoio, che la perdita era dovuta ad una quantità esuberante di benzina rimasta all’interno dello sportellino in seguito ad un eccessivo precedente pieno. Nulla di grave perciò.
Fatti così seguire i ringraziamenti della coppia da un nostro conseguente "di nulla!", ci rimettiamo in carreggiata superando lo sbrodoloso milleccinque mentre un immaginabile senso di soddisfazione per la buona azione da boy-scout or ora compiuta ci pervade l’animo.
Macinata ancora una buona decina di chilometri, ecco finalmente scollinare impegnando il passo di Crocetta, mentre la strada continuando a presentare numerose serie di curve lungo le quali si fanno sempre più fitte le code di macchine, si trasforma in una veloce discesa.
Dietro di noi intanto c’è un milleccento di uno strano signore, che già da un po’ di tempo, guidando, continua a tenere tutto disteso fuori del finestrino il braccio sinistro. Il fatto ci appare subito piuttosto insolito, fintanto non ci accorgiamo, dopo aver escluso l’ipotesi per cui quell’arto potesse avere un’ingessatura - per quanto questa sarebbe risultata abbastanza straordinaria - oppure avesse invece, vista la strada tortuosa, la funzione di freccia direzionale a beneficio di chi lo segue; fintanto, si diceva, non ci accorgiamo che il distinto signore tiene in mano un biberon pieno di latte per il quale evidentemente non è riuscito a scovare un più facile sistema per un rapido raffreddamento. La scenetta è piuttosto esilarante e una stessa impressione la deve avere avuta anche quel servizievole babbo, che, vedute le nostre facce divertite, insiste nel suo improvvisato show col rischio magari di ritrovarsi il latte raffreddato eccessivamente. Durante un successivo suo sorpasso, possiamo poi prender visione della sua numerosa famiglia: una vera e propria nidiata sparsa qua e là sui sedili con una moglie piuttosto indaffarata anziché no.
Il curioso episodio ci ha fatto intanto percorrere qualche altro chilometro ed ora, abbandonata la cornice di castagni che aveva caratterizzato il tratto precedente, la strada diventa sempre più panoramica, cominciando già a farci vedere laggiù il mare coperto per il momento da una sottile foschia. La parete del rilievo che sovrasta Paola su cui ci troviamo, risulta alquanto a strapiombo, tanto che la strada, al fine di non trasformarsi in un poco agibile taboga automobilistico, è costretta a compiere, per giungere in fondo sulla bassa costa tirrenica, strettissimi e numerosi tornanti che nella loro successione le danno l’esatta fisionomia di una comoda scala. La veduta che si stende per gli interi l80° di un angolo piatto, è da quassù davvero insuperabile. Dopo aver esitato un po’, decidiamo così di fermarci un pochino anche per dar modo all’Ughino di prendere più tranquilla e completa visione del panorama senza preoccupazioni di guida. Ci fermiamo lungo uno dei tanti rettilinei che uniscono un tornante all’altro e scesi di macchina prendiamo ancor più atto dell’incredibile tracciato della strada che in certi punti addirittura sembra che penetri al di sotto del tratto soprastante, Ogni tanto poi, secchi e angusti tornanti ci fanno scendere di qualche metro tutti d’un botto, impegnandoci, specie nell’abbordare quelli sulla destra, in una manovra piuttosto impegnativa.
In fondo, lambita da un mare tenuamente celeste, si stende, bassa, una costa dai particolari ancora indistinguibili dato il dislivello, mentre sulla destra possiamo già scorgere Paola, prossima tappa di interesse turistico.
A bassa velocità, sia per evitare di trasformare la discesa al mare in un tragico ruzzolone, che per godere il più possibile del notevole scenario, che piano piano, tornante dopo tornante, cominciamo ad osservare in una dimensione meno vertiginosa, più comune, ecco raggiungere il litorale tirrenico e in breve entrare in Paola.
Ecco difatti avvistare in questo momento la segnalazione d’ingresso in città dipinta in bianco e nero su quel muro laggiù, al di sopra del quale troneggia una torretta di antica origine, che ispira il Gianni ad immortalare. Ci fermiamo sicché qualche minuto sul ciglio sella strada anche per permettergli di ricaricare la macchina con una nuova pellicola, poi riprendiamo la marcia buttandoci subito alla ricerca del Santuario di San Francesco di indigena origine, che sembra si debba trovare piuttosto alla periferia della cittadina calabra.
Insapientiti da qualche informazione e dai molti cartelli, riusciamo poco dopo, verso le 17.20, a localizzare il Tempio, situato felicemente proprio nel punto in cui i pendii di due opposti rilievi, incontrandosi, vanno a formare un ameno fondo valle.
Il Santuario è raggiungibile attraverso un ultimo tratto di strada piuttosto ampio, una specie di piazzale insomma, sulla cui sinistra un filare di alberini rifinisce il parapetto che si affaccia sul vuoto sottostante. Dalla parte opposta si erge invece una costruzione con vari locali, di cui alcuni, come c’era d’aspettarsi, destinati all’inammissibile commercializzazione di immagini sacre, rosari, medagline e via discorrendo.
Posteggiato sulla sinistra il 124 col muso rivolto verso il burrone, ci incamminiamo verso la chiesa laggiù in fondo, mentre un leggero svolazzare di bianche colombe sul piazzale completano idilliacamente l’immagine solenne della basilica sullo sfondo.
Raggiunto il porticato della chiesa, entriamo in una cappella laterale, quella di San Francesco in cui, raccolto da una decina di lampade sospese disposte davanti a semicerchio, spicca l’altare del santo. Qualche minuto di compita osservazione, poi penetriamo, invitati dal flusso di altri turisti, in una cappella sotterranea, che si raggiunge attraverso una stretta scala. Qualche fioca lampadina cerca di rischiarare l’ambiente in cui è possibile distinguere fra 1’altro numerosi ex-voto appesi alle pareti, e, sparse qua e là senza un preciso ordine logico, miriadi di fotografie ritraenti i presunti graziati. Nel complesso il tutto, anche perché mal tenuto, appare di un’accentuata sgradevolezza. Una certa curiosità ci trattiene comunque di fronte a queste testimonianze di prodigi di cui scorriamo pure qualche trafiletto scritto, che meglio riesce a spiegare l’intera nutrita collezione. Poi, d’un tratto, ecco spegnersi la luce facendo cadere la stanza in una rimescolante penombra che provoca all’istante qualche impaziente scalpitio dei presenti già condizionati, come tutti del resto, da questa atmosfera così satura di misticismo e di soprannaturale tendente forse a pensarci bene anche ad un superstizioso paganesimo. Opera del maligno ma anche idiota scherzo di spegnere l’interruttore è un gruppo di schiamazzanti ragazzine che già prima ci avevano dato nell’occhio per il loro tutt’altro che serio e conveniente comportamento.
Risaliti su, ci immettiamo in un cortile laterale che sembra giri tutt’attorno alla chiesa. Nel doppiare la prima cantonata, ci viene evidenziato sulla destra da altri visitatori un cancellino chiuso sopra un paio di gradini nel cui interno, piuttosto buio, si possono scorgere alcune rocce incorniciate da qualche drappo rosso e inondate da un sacco di monetine. La spiegazione di tutto ciò ci viene in parte fornita dalla lettura di una lapide in cui ci vien riferito che un bel giorno San Francesco per trarre in salvo un agnello dalle fiamme, entrò all’interno del pertugio, definito calcare, riuscendo - il che ha del prodigio - a venirne fuori completamente indenne. L’altra parte della spiegazione semmai, circa come abbia fatto, continua ad esserci sconosciuta.
Fatte le considerazioni del caso e gettata una moneta, continuiamo a percorrere il lungo cortile che ad occhio e croce sembra voglia di volta in volta strabiliarci sempre di più, visto che adesso sulla destra, superato un piccolo arco, c’imbattiamo, ohibò!, in una grossissima bomba d’aereo un po’ arrugginita, che sembra risalga all’ultima guerra mondiale, per la cui ancora attuale integrità e soprattutto per quella del Santuario su cui era caduta, si ringrazia una volta di più lo straordinario santo, che a quanto pare doveva essere pure un artificiere disinnescatore di tutta eccezione. La mole dell’ordigno, sistemato su un piedistallo, fa però piuttosto impressione e, se non altro, ci permette di vederne uno da vicino senza correre alcun rischio, se non quello magari di farcelo cadere su un piede. il Gianni addirittura lo vorrebbe fotografare, ma la scarsa luce di questo punto gli fa risparmiare un fotogramma.
Passiamo avanti. sempre sulla destra, sì perché sulla sinistra non c’è che il muro della chiesa, incontriamo adesso a ridosso del muro di cinta un baldacchino in muratura a protezione di un vano incassato della parete e chiuso da un portello di vetro: all’interno s’intravede dell’acqua, che, a detta del solito didascalico cartello, sembra sia sgorgata a suo tempo ad opera del sempre più sorprendente Francesco e che per questo è da allora ritenuta benedetta, dimenticando forse le eventuali capacità rabdomantiche del santo. Lì vicino c’è attaccato perfino un romaiolo nel caso in cui qualcuno ne volesse costatare di persona la miracolosità. L’assenza per altro di boccali e piscine differenziano sostanzialmente il luogo da una comune stazione termale.
Riprendiamo intanto il pellegrinaggio con Alberto che ad ogni cimelio continua a non trattenersi dal sogghignare in proposito e dall’ironizzare sulla devozione con cui molta gente invece vi tien fede, e con 1’Ughino e il Gianni che invece, pur non riuscendo magari a prender tutto questo per oro colato, conservano un certo rispetto per chi d’altra parte in tutto ciò crede e spera.
Un ponticello piuttosto arcuato ci permette intanto di scavalcare un fossato e di ritrovarsi dall’altra parte dove il corridoio, divenuto ancor più stretto, ad un certo punto diventa cieco. A sbarrare il passaggio c’è un basso cancellino che, forte di una grossa inferriata, chiude una cella strettissima in cui il santo soleva in penitenza rinchiudersi, anche per aver così modo, chissà, di dare dimostrazione, data l’angustia e le impossibili dimensioni dell’ambiente, di una certa propria apprezzabile capacità, forse congenita, di alto contorsionismo.
Completata la lenta visita del cortile, ci incamminiamo per far ritorno al piazzale fermandosi ancora però un pochino sullo strano ponticello e tornando ad osservare tutti i vari prodigi mostratici, mentre l’Ughino e il Gianni si prodigano nel cercar di frenare Alberto nelle sue battute dissacranti che dimostrano una più che evidente sua insopportazione per queste cose.
Usciti poi da un ingresso secondario, raggiungiamo il 124 e abbandoniamo così il Santuario di Paola.
Sono le 17.45. Riguadagnato un incrocio precedentemente impegnato, giriamo a questo punto a destra imboccando una veloce arteria, una specie di superstrada, su cui l’Ughino prende subito una discreta andatura. Si comincia intanto a rivedere il mare e questa inebriante visione ci suggerisce forse l’impossibile ambizione di poter magari fare il bagno appena arrivati a Praia. Speriamo di far presto, dunque.
Lasciando Paola abbiamo iniziato intanto, per la cronaca, il viaggio di ritorno del nostro raid, benché il punto più meridionale si sia toccato stasera verso le 16.00 poco dopo il Montescuro. Si torna a casa perciò!
In 124, mentre la luce del sole che già comincia ad inclinarsi notevolemente diffonde sul paesaggio e sulla strada la calda luce rossa del tramonto, si parla con saltuaria intermittenza dei tanti luoghi anche oggi visitati, ricorrendo poi ai quotidiani e quasi   irrinunciabili argomenti di conversazione, che partono dall’ostinata compattezza del terreno della maggior parte dei camping finora utilizzati e che ha finito per farci storcere irrimediabilmente tutti i nostri picchetti; per poi passare alla sollecitante carrellata delle migliori ragazze incontrate finora: dalle australiane, alla cosiddetta rossina di Anzio o a quella di oggi a pranzo, benché comunque la palma di miss appartenga tuttora unanimamente a quella stupenda negra di Positano, della cui esistenza evidentemente non sono al corrente i numerosi fomentatori di assurde, per lo meno in questo caso, teorie razziste. Poi, se ancora la conversazione non ha trovato qualcos’altro di nuovo dove poter approdare, ecco il giornaliero canzonatorio ricordo di un nostro comune umico; il tutto, come sempre, intercalato continuamente da citazioni, non certo fra le più angeliche, di una non meglio identificata Marchesa.
Tutto ciò comunque è servito anche stavolta a trascorrere di buon umore un’oretta, il tempo cioè necessario per avvistare Cirella, che la guida indica molto interessante per la città vecchia non più ricostruita dopo un rovinoso bombardamento francese avvenuto nei primi anni del secolo scorso. Avvistati i ruderi, in alto sulla destra, arroccati su un leggero rilievo, ci buttiamo in quella direzione sulla prima contrada che troviamo, decidendo però, percorsi una quarantina di metri, di domandare per sicurezza ad una gentil donzella se è possibile raggiungerli da questa parte. Ci vien detto invece che occorre entrare prima in Cirella e poi imboccare una più appropriata strada. Appunto! Attraversata così la statale e quindi il paese, scavalchiamo di nuovo la grossa arteria che ci ha portati fin qui, ritrovandosi infine tra campi e vegetazione sparsa.
Prima di imboccare una delle due o tre possibili diramazioni che a questo punto ci troviamo di fronte, raccogliamo una nuova informazione presso un paio di tetre vecchiette, il cui linguaggio risulta però nella risposta di difficile interpretazione. La stradina a dritto dovrebbe essere comunque quella giusta.
Imboccandola però ci accorgiamo subito, fatta una decina di metri, di come ciò che stiamo percorrendo possa essere benissimo identificata in una ripida mulattiera, del tutto inadeguata perciò a folli rincorse. Larga poco più del 124 e tra due cigli alti mezzo metro, la strada ha infatti un fondo impossibile con sassi dappertutto, buche e sporgenze acuminate a non finire. Dopo aver soppesato il da farsi, cominciamo allora a procedere con estrema delicatezza sulla petrosa carreggiata, con la continua sensazione però che da un momento all’altro si debba sentire un raggelante picchio sotto la carrozzeria a causa di qualche ciottolo un po’ più sporgente. Da parte sua 1’Ughino s’ingegna più che può ad evitare i più evidenti e pericolosi ostacoli, mentre soprattutto il Gianni, tutto in tensione sul sedile, cerca, ma ovviamente senza successo, di rendersi il più leggero possibile al fine di provocare un minore abbassamento di tutta la carrozzeria e far aumentare così la distanze fra gli organi meccanici più bassi e il frastagliato selciato. L’ascesa, lentissima e sofferta, diventa poi sempre più problematica scoprendo con disperazione dietro ogni curva superata un successivo rettilineo di identica impraticabilità, tanto che ad un certo momento il Gianni scende di macchina e s’incammina a piedi in avanscoperta per rendersi conto se c’è ancora molto a questa sudatissima meta e se e in quale misura la strada, sì insomma questo alveo di torrente in magra, diventi ancor più impossibilmente impervia. Fatta un’ottantina di metri però scopre alla fine la deviazione che ci interessa, da percorrersi stavolta esclusivamente a piedi, cosicché, visto che le condizioni della carreggiata non sono peggiorate sensibilmente e, dal momento che una volta fatto trenta è di prammatica fare trentuno per poter continuare a ballare se già ci si trova in ballo, gesticola verso gli altri dando così il nulla osta per percorrere anche questo ulteriore e per fortuna ultimo pezzettino. Ecco allora l’Ughino stimolare di nuovo il povero 124, che visto di lassù dove si trova il Gianni, così arrancante e con quella malinconica mascherina tra i due languidi occhioni - i fari -, fa non poca tenerezza.
Il viottolo che porta a Cirella Vecchia si apre sulla sinistra proprio su una curva, la quale ci permette così di parcheggiare il valoroso 124 in modo da non ostacolare il transito di altri eventuali e altrettanto incoscienti visitatori. Decidiamo però di girare subito la macchina per ritrovarsela pronta una volta tornati. La manovra risulta più complessa del previsto tanto da richiedere, costretti come siamo ad operare in un francobollo di spazio, numerosi tentativi coronati poi finalmente, dopo pure qualche slittamento delle ruote posteriori alla voluta inversione di marcia. Sono le 18.50.
Chiusa ben bene la macchina e prese le macchine fotografiche e il cavalletto, c’incamminiamo lungo lo stretto e poco battuto sentiero, che per un primo tratto s’inerpica tra folti cespugli di insidiosissimi fichi d’India. Sfruttando poi a mo’ di gradini qualche naturale successione di pietre, lo strettissimo viottolo ci porta in breve a raggiungere le prime rovine del paese, che di quassù con indubbia spettralità troneggia sia l’entroterra che la spiaggia e il mare, da cui venne l’implacabile attacco sterminatore della flotta francese. Con tutti questi sassi intorno, ci assale intanto un po’ di paura al pensiero di dover malauguratamente scoprire da un momento all’altro qualche sgusciante serpente, che, c’è da scommetterci, non avrà certo trascurato questo petroso e assolato luogo in vista delle proprie ferie estive. Inoltre c’è la dannata possibilità che a un certo punto ci si veda venir di sotto qualche muro più pericolante degli altri, per cui preferiamo non addentrarsi nella distrutta Cirella, accontentandosi quindi di esplorarne solo la parte periferica meridionale, in cui adesso continuiamo ad inoltrarci.
Ecco raggiungere sicché, tra spighe dorate, qualche papavero e ancora pietre, uno spiazzato da cui. possiamo dominare una non indifferente veduta del mare e dell’isolotto di Cirella, valorizzata anche da un bellissimo primo piano costituito da frammenti e spezzoni di mura.
A sinistra scendendo un pochino, troviamo poi quella che sarà stata certamente una chiesa, di cui difatti resistono ancora alcuni affreschi sulle scalcinate mura; sulla destra scoviamo invece una piccola costruzione come al solito da più parti sventrata anche se stavolta abbastanza in piedi, in cui scopriamo un largo squarcio nel pavimento, che fa macabramente intravedere sul piano inferiore un mucchio di ossa disordinatamente sparse, che ci raggela. A occhio e croce non potrebbero essere che umane, visto che specie quello laggiù ci sembra che assomigli troppo ad una rotula. D’altra parte, poiché è improbabile che possano risalire al bombardamento francese, non riusciamo a spiegarci come mai si trovino lì, avanzando perciò pure l’ipotesi, tanto per voler trovare il giallo dove magari non c’è mai stato, che il tutto sia il risultato di un oscuro e truce delitto dei tempi nostri.
Il sole intanto, divenuto sempre più radente, illumina i ruderi con una strana luce gialla, che, per la gioia dell’intero equipaggio intento a fotografare, rende i colori più caldi e contrastati.
Una lucertola in estasiato godimento del sole se ne sta intanto su un diroccato muretto.
C’è poi Alberto, che, indispettito della ferocia con cui i francesi abbiano potuto distruggere questo paesino, se la prende, veramente arrabbiato, con loro, al cui indirizzo sono ripetutamente lanciati epiteti di particolare irriferibilità a tutela della solita comune decenza.
Si è fatta intanto l’ora di tornarcene via. Sono infatti le 19.00 passate da una decina di minuti, cosicché per non arrivare a Praia a buio è necessario sbrigarsi. Ritrovato il sentierino per cui siamo arrivati, lo ripercorriamo a ritroso, ritrovandoci come sfondo stavolta le colline più vicine dell’entroterra cosparse qua e là da arroccati paeselli, un grosso pilone della luce sulla sinistra e laggiù tra il verde dei circostanti prati il bianco del 124, che dopo essere venuti giù a balzelli e salti per evitare tra l’altro gli insidiosi rovi, raggiungiamo di nuovo in questo momento. Nel passare però davanti a quei folti cespugli di fichi d’India, Alberto non resiste alla tentazione di coglierne uno, ritrovandosi però all’istante pieno di quei noiosi spini che raccolti in ciuffetti si trovano su questi stupidi frutti e che si attaccano dappertutto provocando pure un fastidioso prurito.
Saliamo in 124 e si riparte. Con l’identica andatura di prima, ecco di nuovo percorrere questa strada assassina, che nonostante tutto però ci ha permesso di vedere ancora qualcosa di interessante.
Superata qualche curva, avvistiamo poi sul ciglio destro un omino, il cui aspetto indigeno ci suggerisce di domandargli qualcosa su Cirella per poterne sapere un po’ di più. Abbiamo però subito l’impressione che questo tizio ne sappia meno di noi o per lo meno seppia soltanto parecchie baggianate. Ci racconta infatti che il bombardamento non avvenne nel secolo scorso ad opera dei Francesi come ci aveva illustrato la guida, bensì - si pensi un po’! - fu provocato dai Romani, che, per stupide questioni circa la qualità di qualche damigiana di vino, spazzarono via a suon di cannonate il paese, come se i Romani fossero stati a conoscenza di simili ordigni bellici dalla lunga gittata, di possibile adozione invece, come sappiamo, solo in seguito alla scoperta della polvere da sparo. La questione perciò è una sola: o 1’omino è briaco fradicio oppure ci vuole prendere poco dignitosamente per il popò. E non è finita! Continuando a parlare difatti, l’interpellato comincia a spaziare il suo discorso, tanto che, mentre noi siamo ancora convinti che parli di Cirella, lui fa un improvviso e non richiesto balzo nel tempo cominciando a fare le proprie considerazioni sull’attuale ingarbugliata situazione politica nel Mediterraneo. E senz’altro non ce ne saremmo accorti mai di stare a sentire discorsi su tutt’altro argomento se Alberto, volendo ricevere una più delucidante spiegazione su che cosa ci fosse nel punto lì sul vicino pendio di sinistra indicato or ora nel parlare dallo strano signore, non si sentiva rispondere che c’era, non qualche altra rovine di cui la disquisizione ci aveva fatto intuire la presenza, bensì addirittura Israele. L’inaspettata risposta ci portava comunque a capire finalmente il senso del suo farraginoso e incomprensibile discorso. Ora pero, che Israele si trovi in quella direzione siamo pienamente d’accordo, ma che tutto ciò possa avere una qualche attinenza con la storia di Cirella è tuttora da dimostrare. Resici conto perciò di stare solo perdendo inutilmente del tempo prezioso, nel dare ascolto a questo strano individuo, che, chissà, esasperato da continue notizie di crisi, colpi di stato, dirottamenti aerei e via discorrendo, non avrà veduto di meglio che sfogare il proprio risentimento per questo mondo incredibilmente a capallingiù con i primi incontrati, lo salutiamo e continuiamo la nostra discesa.
Bah! Roba da matti!
Tornati sul beneamato asfalto che assomiglia adesso dopo l’esperienza da fuoristrada appena vissuta un levigato biliardo, ci reimmettiamo, dopo aver attraversato di nuovo Cirella tra panni stesi e bambini vocianti, in quella specie di superstrada momentaneamente abbandonata che ci porterà finalmente a Praia.
Ripresa una buoni andatura, costatiamo con sollievo e soddisfazione la perfetta efficienza del l24 reduce da un inconsueto sollecitamento, percorrendo così in breve tempo ancora una decina di chilometri per poi cominciare ad avvistare già qualche cartello pubblicitario di Praia. Ah, semmai la scelta di fare tappa e di fermarsi anzi in questa 1ocalità addirittura per due giorni fu del tutto influenzata dal racconto entusiasta del Rouge, di passaggio da queste parti in occasione di un suo recente viaggio in meridione.
Dopo aver attraversato un viadotto gettato sul corso d’acqua che la carta cita col nome di Lao, ecco che la strada penetra attraverso alte pareti di scoglio, che preannunciano e confermano la caratteristica frastagliatura della costa calabra. Scendendo poi un pochino nel compiere qualche curva, ecco all’improvviso, all’uscita di una di queste, stagliarsi una spettacolare veduta costituita da ulteriori prominenze rocciose che fiancheggiano la strada e nel centro dalla grossa isola di Dino, piuttosto tozza ed elevata e vicinissima al continente. La costa presenta inoltre ampi golfi con una spiaggia bassa e piuttosto spaziosa, mentre nel più immediato entroterra una serie di modesti rilievi completa il quadro di Praia e dintorni.
Mentre pensiamo di cercare di fare nei prossimi giorni una capatina sull’isola di Dino che la guida ci segnala per le grotte, discendiamo lentamente al livello del mare adocchiando alla fine un primo caratteristico cartello dei camping. Il villeggio a cui si riferisce è situato proprio lì sulla destra e copre un perimetro non eccessivamente ampio, in cui inoltre già diverse tende e roulotte hanno preso piede. Ad occhio e croce ci sembra anche piuttosto sfornito di quei parasole naturali, fronzuti, alti da una certa altezza fino a terra e chiamati anche talvolta alberi, la cui funzione riparatrice dai raggi del sole ci sembra indispensabile, se si pensa inoltra che dobbiamo rimanere accampati qui per due giorni. Siccome poi la guida dei camping prevede un altro campeggio nei paraggi, anzi sembra proprio in Praia, decidiamo di proseguire e magari solo nel caso ritornar qui.
Avuta così conferma da un giovanotto interpellato al volo sul ciglio della strada a qualche passo dallo scartato campeggio, continuiamo a fare ancora un po’ di chilometri giungendo poi finalmente a Praia. Il paese è disposto tra il mare e le vicinissime pendici dell’entroterra, per cui si presenta allungato nel senso longitudinale e attraversato per oltre un paio di chilometri dalla statale. Adesso, mentre a destra continuano a sfilare case l’una dietro 1’altra, sulla sinistra c’è una specie di spartitraffico alberato al di là del quale corre, parallela alla strada che stiamo percorrendo, una sorta di passeggiata riservata esclusivamente ai pedoni e all’alloggio di alcune bancarelle smercianti per 1o più articoli da spiaggia. Completa il lato sinistro una seconda serie di case un po’ più moderne delle precedenti. Ancora più in là dovrà esserci la spiaggia e quindi il mare, a cui per oggi non potremo però dedicare punto tempo per 1’ora ormai tardina e le tante cose da sbrigare.
Attraversiamo il paese tra un brulichio di bagnanti, quando 1’Ughino si blocca presso un bar sull’angolo di una contrada sulla destra, scendendo poi per prendere il promesso spumante. Dopo due minuti eccolo di ritorno con la preziosa bottiglia, mentre, ripartendo Alberto provvede a segnare il rèlativo costo sul c/c intrattenuto tra lui e l’Ughino, in quanto loro personale omaggio a ricordo del diciannovesimo anniversario genetliaco del Gianni.
Compiamo quindi una dolce curva sempre nel centro di Praia, poi, mentre ci sarebbe anche una deviazione sulla destra, proseguiamo sulla statale cominciando già ad incontrare qualche cartello del successivo camping. Lasciata così Praia a Mare e superato un susseguente caseggiato, stiamo poi per imboccare un dosso scavalcante forse la ferrovia, quando ecco avvistare dalla parte opposta la deviazione giusta per il campeggio. Torniamo di qualche metro indietro, quindi imbocchiamo questa stradina che scende per una trentina di metri parallela alla statale in direzione Nord e che poi, confluendo con una seconda stradina proveniente da sotto il segnalato cavalcavia, gira a sinistra in direzione del mare diventando al tempo stesso sterrata. Ai fianchi ci sono delle villette, poi ecco un bar.
Raggiunta la spiaggia, il segnale del camping ci indirizza ancora a sinistra imboccando così adesso una lunga strada sempre non asfaltata che costeggia la spiaggia e su cui dopo un duecento metri ecco aprirsi sulla sinistra 1’ingresso del camping, che per la cronaca ha l’esotico nome di Tike’s. Non sembra a prima vista un gran che, né fondamentalmente diverso dal precedente per quanto riguarda l’attrezzatura ombrosa, ma a questo punto ci fa veramente fatica tornare indietro e così, apprezzando per altro la preziosa vicinanza al mare, ci affacciamo sul vialino di ingresso.
Soffermatici a fianco della direzione, ecco arrivare un giovane alto e magro, forse il responsabile, che, come ci vede, ci schiaffa nell’angolino basso destro del parabrezza del 124 una targhetta di riconoscimento del Camping autoadesiva (adesiva cioè solo per le auto), facendoci quindi entrare senza ulteriori formalità. Ed ecco di nuovo riproporsi il problema dello spazio. In fondo a questo primo vialino, la ghiaiosa stradina interna si biforca perpendicolarmente formando così un anello intermedio lungo il perimetro del camping che pur tuttavia non risulta di mastodontiche proporzioni. Imboccata la deviazione di sinistra, cominciamo a scrutare fra tenda e tenda, roulotte e roulotte alla ricerca dell’eventuale modesto spazio per poter alzare la nostra Canadese, mentre Alberto comunica di avere un urgente ed impellente bisogno fisiologico personale, che richiede l’immediata individuazione dei servizi. Compiuti ancora une decina di metri li avvistiamo per fortuna lì in fondo permettendo subito sicché ad Alberto di prendervi piede, onde evitare una sgradevole e ineducata soddisfazione di certe necessità sul sedile posteriore.
L’Ughino e il Gianni continuano intanto la ricerca. Sulla destra uno spiazzato congiunge le due circonvallazioni ma per la presenza di qualche alberello nel centro è poco indicato per la sosta, tanto più che ha la preminente funzione di far circolare le auto. Lo imbocchiamo ugualmente e verso la metà sulla nostra sinistra scopriamo il sospirato buco.
Già 1’Ughino ha fatto manovra e messo in posizione il 124 per potervi entrare di coda, quando una donnina della roulotte lì vicino ci avverte che quello spazio anche se non c’è il tradizionale cappello è occupato, adibito cioè, ci spiega, al parcheggio della propria automobile, momentaneamente adesso fuori dal camping. Non c’è niente da fare sicché.
Raggiunta allora la circolare destra, la finiamo di percorrere raggiungendo così il congiungimento delle due strade perimetrali del campeggio e ritrovandosi poi di nuovo davanti ai servizi, per poi ripassare successivamente di fronte alla postazione di quella donnina a cui volevamo soffiare.
Poi, visto e considerato che altri spazi liberi non esistono, decidiamo di piazzarci in fondo a questo intermedio congiungimento dove si apre uno spiazzato abbastanza decente. C’è pure un alberino, mentre l’acqua è sul ciglio della stradina interna servita alla gentile clientela attraverso un tubo che s’innalza per circa un metro e mezzo da terra e che risulta dotato di un comune rubinetto.
Sono le 20.00 passate da un pezzo.
Il 124 lo sostiamo col muso rivolto verso il reticolato che cinge tutto il camping, cominciando invece a stendere la tenda sulla sua sinistra con l’apertura rivolta verso l’entroterra per evitare violenti riscontri in caso di bufere marine.
Alzata in quattro e quattr’otto la Canadese, ci cominciamo subito a preoccupare della cena che risolviamo anche stasera organizzandola a base di thè, formaggini e qualche biscotto.
Come vicini stasera abbiamo un tendone sulla destra che subito ci pare superaffollato di bambini, mentre dalla parte opposta stanno montando la propria tenda quattro giovani di sesso alternato arrivati anche loro stasera.
E’ già diventato buio intanto e così, consumata la cena sul tavolino posto sotto costante influenza degli anabbaglianti della macchina, visto che la torcia dell’Ughino è di nuovo inefficiente, decidiamo di rimanere un po’ più alzati stasera rispetto agli altri giorni dal momento che per lo meno domattina non saranno necessarie levatacce di sorta.
Il Gianni intanto, disteso su un materassino e ironicamente paragonato dagli altri in quella posizione ad una rivoltante baldracca, si bea come ogni sera nella contemplazione delle stelle anche stanotte nitidissime insieme alla Luna in un cielo blu cupo ma per niente coperto, annoiando magari gli altri nel relazionarli come di consueto sulla posizione del proprio studio di Firenze dedotta grazie alla presenza delle Orse; 1’Ughino invece, dopo aver appreso dall’astrologo Gianni la dislocazione delle varie stelle, ne trae una specie di considerazione filosofica; Alberto infine, tanto per tornare in terra, propone di intessere un discorso serio prendendo spunto dalle continue redarguizioni del Gianni e dell’Ughino, che ha dovuto subire al Santuario di Francesco di Paola in occasione del suo evidente snobbismo per quei presunti miracoli lì presentati.
Poche parole e la discussione di carattere filosofico religioso prende subito il via dimostrandosi abbastanza sentita da tutti e tre, schierati per un terzo dalla parte di Alberto, tendente a voler dimostrare una certa concezione atea, e per il resto dalla parte dell’Ughino e del Gianni, contrari invece a voler spiegare il mistero della vita con una semplicistica dimostrazione naturalistica e più propensi perciò a riconoscere ad un Dio l’intero operato esistente. La discussione si amplia poi e per forza di cose implica anche la Chiesa e i suoi ministri, su cui invece più o meno tutti e tre son d’accordo nell’imputarle una scarsa capacità e molta incoerenza con gli alti principi dettati dalla religione cattolica.
La disquisizione va ancore avanti per un bel pezzo, poi alle 23.00 in punto, ora in cui 19 anni fa veniva a sussistere un’altra delle più determinanti condizioni affinché questo nostro viaggio potesse essere attuato, il Gianni stappa lo spumante e così, a garganella in mancanza di più adeguati calici, festeggiamo 1’avvenimento.
Trascorrono qualche altra decina di minuti in rilassante conversazione, poi decidiamo di andare a riposarsi. Si eseguono così le consuete operazioni di premessa alla fase notturna della nostra giornata, che si concludono con la tranquilla immagine di tre ragionieri affogati in sacchi a pelo di esagerata stazza o tra coperte ed eleganti lenzuola, beatamente coricati nell’accogliente e riparatrice Canadese.
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